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Il Cavalletto, romanzo breve di Ivan D’Agostini- Orti

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Che non si creda che il tempo che si passa al Caselle sia solo quello di stare attorno ai vari tavoli, interni, esterni, da lavoro, da divertimento, tecnici o rustici che siano. Certo che no.

Oltre al prato, sia quello alto, come lo chiamiamo noi, tanto quello basso e pure quello del cortile comune dove ogni tanto, per via della vacanza invernale o estiva, sostano una mezza dozzina di auto e, alle pratiche di mantenimento dello stesso, per la verità, ci si limita a tagliare l’erba (ma lo faccio praticamente sempre io), al Caselle, tutti quanti, facciamo il nostro orto.

Dunque, l’orto, o più precisamente farlo, è certamente una pratica rilassante, educativa, corroborante, ecologica, economica (forse), sociale), piacevole alla vista, al gusto e all’animo e anche all’anima: guardare un bel pomodoro che matura al sole, è una bellezza. Ma occorre andare oltre.

Dunque (ancora?!?), ognuno di noi fa il proprio orto, Vincenzo e la Piera, fanno il loro ed è quello messo meglio, fra tutti quelli nel nostro piccolo borgo. Il terreno è ritagliato da due strade, quella che porta alle case e la sua, privata, che conduce al suo cortile, dove si aprono i portici del ricovero dei mezzi agricoli (Vincenzo si divide tra due attività: una di controllo delle acque, per un’azienda pubblica, e una di agricoltore, per la coltivazione della vite; Piera sua moglie, oltre alla preparazione dei dolci in una panetteria del vicino paese, aiuta il marito nel vigneto). Il terzo lato di questo grande triangolo guarda a ovest, verso un boschetto. Dicevo che è il più comodo: non solo è bene illuminato, dal mattino sino alla sera, ma viene anche ben lavorato (ora non mi perdo tra le varie teorie di preparazione del terreno, disquisizioni che spesso lasciano il tempo che trovano) con facilità, viene fresato con il trattore a cingoli tre o quattro volte prima della semina e poi, viene nutrito con il letame maturo che proviene dalla fazenda del Giovanni (un fratello della Piera), che dista poco da lì. Oltre a questi vantaggi, tempo fa, Vincenzo, forse raccogliendo qualche mio suggerimento, ha posizionato poco più in alto, accanto alla strada che conduce alla fonte, nel boschetto che delimita un campo molto in pendenza, un vascone bello capiente di raccolta del troppo pieno della fonte, in questo modo si è assicurato una provvista d’acqua per dissetare l’orto. Senza perdermi in inutili descrizioni, dettate più dall’invidia (sana, però, e priva di qualsiasi acredine) che altro, della bellezza e prosperità delle colture, occorre dire che in effetti, quell’orto dà una bella resa (ne approfittammo anche noi per qualche anno, durante la permanenza della famigliola a Ca’ del Diavolo, dove Vincenzo era assunto come custode, su suo suggerimento), nulla da dire.

Scendendo verso il basso del crinale, il secondo orto che si incontra è quello di Nicoletta e Maurizio e qui le cose si fanno buffe e, a tratti, melanconiche. Dunque, anche questo pezzo di terra dedicato alla verzura ha una forma che ricorda una sorta di triangolo, solo che è tronco, ma la cosa che lo determina sono le coppie di muri posti a monte, verso sud (cioè verso la montagna), e il muretto quasi scomparso, che sta a nord e che lo separa da una sorta di stradina. I muri a sud si sono resi necessari per il contenimento e sostegno della scarpata e, con una visione attenta del paesaggio, la coppia milanese, Nicoletta e Maurizio, chiamarono un vecchio muratore della zona, il quale, con molta pazienza e precisione, elevò una muratura mutuando la trama da quella delle case dell’intorno. Il risultato, piacevole, fu una bella struttura, che ben si integrava nell’ambiente, rispondendo bene alla funzione. Tra le commessure non allineate delle pietre, dove la malta è poca ma sufficiente, (tale che l’acqua che cola dall’alto, durante le precipitazioni, non ha mai trovato intoppi e il drenaggio realizzato ad hoc, neppure al disgelo ha dato segni di cedimento), il muschio e  erbe spontanee hanno colonizzato negli anni la parete, che ora non sembrerebbe più tale, se non fosse che Vincenzo, per una propria necessità, ha deciso di elevare una seconda muratura, stavolta leggermente arretrata rispetto alla preesistente. Utilizzando però una tecnologia diversa, che pur risultava a suo modo apprezzabile, ha finito con il porre sottotono l’opera certosina del buon Mario muratore. Il nuovo muro, realizzato con gabbioni metallici (quelli che si utilizzano per imbrigliare le scarpate delle strade, e tanto altro, in quella che noi tecnici definiamo ingegneria di tutela contro l’erosione dei terreni), riempiti con pietre per lo più tonde, quindi non proprie di quel paesaggio, di fatto getta comunque un deciso cono d’ombra sulla superficie sottostante del terreno dedicato all’orto. Ciò nonostante, il buon Maurizio, non ha desistito dalla pratica e ogni anno, seppur costantemente in ritardo sulla tabella di marcia che Frate Indovino colloca tra marzo e aprile, per l’impianto dell’orto, allestisce la sua apparecchiatura, provvedendo anche (credo forse il solo), ad approntare una rete di innaffiamento automatico. L’orto di Nicoletta e Maurizio è leggermente più curato di quello sopra, almeno nella fase iniziale, poi per effetto di un dilagare delle presenze spontanee e del rarefarsi delle loro, il campetto è tutto un rigoglio di “erbacce” (piante colonizzatrici, le avrebbe definite il buon Raja[1]) dove si scorge, a volte e a fatica, il rosso del pomodoro maturo; solamente la fila nutrita di piantine di basilico, che la Niko raccoglie rigorosamente l’ultimo loro giorno di vacanza per la preparazione annuale del pesto, emerge da quell’informale massa verde. Ma anche questo non si può dire che sia un brutto orto.

[1] Il professor Raja è un perito agrario che ho avuto la fortuna di conoscere durante gli anni in cui frequentavo l’I.D.I. (Interior Design Institute) una scuola privata di stampo parauniversitario, come docente di Tecnologia delle Costruzioni e dei materiali da costruzione, che mi ha informato, senza la presunzione di indottrinarmi, sul ruolo di quelle che noi chiamiamo erbacce e che, senza le quali, ovvero senza la preparazione che le stesse compiono su terreni, che in origine sono aridi, la stragrande maggioranza delle piante che noi coltiviamo, non avrebbero lunga vita.

Ivan D’Agostini

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