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Il Cavalletto, romanzo breve di Ivan D’Agostini- Il ping pong

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Lo guardo ora, quel piano, le assi di larice caricate a dismisura sul tetto della povera Mondeo che, a fatica, risalì la strada bianca che da Pianello porta al Caselle, passando per la Ca’ (per la verità, la strada ora non c’è più, perché erosa da acqua e stoltezza umana, ma è un’altra storia, e ci sarà tempo e voglia per raccontarla), si sono arrugginite nel tempo, sono diventate marrone scuro, si sono piegate, svergolate, sollevate sulle punte, tanto, tanto, che mi sembrano ballerine e che mi ricordano una mia vecchia fiamma La scorza si è fatta morbida, quasi a conformarsi con le pieghe delle stagioni e a scalzare l’acqua che cerca di consumarle, che sia uno specchio del vivere? Stoltamente cerco in tutte le azioni, in tutte le manifestazioni, una risposta ai perché che mi ronzano di continuo nell’animo.

Sono passati anche per loro tanti anni, e che dire, che quando le posi sul terreno, listelli e sabbia, il povero William ci aveva già salutato, in silenzio (partito per il mondo che mai vedremo da coscenti[1]), avvertendo, nell’onirico sognare di quella ultima sua ultima notte, solamente la sorella, mia compagna, dicendogli che ora lui (ma caspita noi no!) stava bene, era circondato da donne e copulava felicemente e, ora, anche quelle assi segnano il tempo con il loro aspetto consunto, traballanti, nello stare poco diritte e orizzontali, segnate da freddo, pioggia, neve, ghiaccio, sole e dagli sputazzi di noi giocatori. Se ne stanno lì, a segnare quasi il passo, con quel ritmo di varie larghezze, senza misure, dalla lunhezza tutta eguale – che ancora una volta segna il paradigma di chia siamo noi: tutti uguali, nessuno identico-  che scelsi così per evitare la monotonia della ripetizione; eh … mi guardarono un po’ stupiti i Girometta[2], allora, forse, solo abituati a ritmi e costanti, quasi geometreschi e con poche sfavillanti e ardite incursioni nel mare dell’inconsueto; arrivai io e chiesi alcune tavole di larice, con la superficie anche pelosa (senza il passaggio dalla pialla), così che potesse già avere quel grip che serve allo slanciato giocatore del ping-pong senza particolari accorgimenti, ma con larghezze differenti, così da sagomare, quasi, la superficie e accentuare in tal modo, i cambi di prospettiva; differenze, queste, forse percepibili ai pochi, ma, a ben vedere accolte da tutti nell’inconscio del benessere e dello stare bene (ah benedetti architetti …).

Anche ora sono lì, con il loro traballante tremolio dei passi disuguali, che segnano solo il passo, anche questo non costante, come la vita, del resto.

Quel ping-pong che, a dispetto dei tempi, continua a suonare ticchettii, sciabolate, misteriose schiacciate, sibilanti rovesci, che mi vede costantemente perdente (nonostante i mie inesorabili sforzi, devo rassegnarmi: sono un brocco, ho insegnato, bene, credo, ai miei figli, buon maestro, pessimo studente! Loro mi hanno superato) sull’agone, sia a due che a quattro. A volte, capita, che l’estate mi regali qualche serata trionfante, ma è solo un’illusione. Il giorno dopo Luca, mio figlio, e Maurizio, il vecchio amico e dirimpettaio al Caselle,  mi mazzuolano a dovere, invitandomi , così, ad impegnami di più.

Io continuo indefesso a perorare, senza successo, la mia causa, convinto che conti l’impegno e non la riuscita. E anche qui, forse, un mah ci starebbe bene.

Il suono del legno varia, a seconda del tempo, dell’umidità presente nell’aria, del modo in cui la pianta madre ha navigato nel tempo (lo sapeva bene certamente il buon Stradivari che sceglieva personalmente l’albero da cui ricavare i suoi magistrali strumenti), di come ha patito freddo e neve o, al contrario, di come abbia goduto di buon clima, di buona acqua e di terreno fertile nutriente. Le spire della sua vita ci raccontano tanto e tanto possiamo ricavarne. A suo modo anche quella superficie, dove oramai la tinta del Riccardo sia quasi svanita, erosa, scavata dal freddo e dal gelo, quel compensato – materia costruita dall’uomo con la materia che la natura gli dà- manipolato dalle industrie del legno, ottenuto ottimizzando materiali, processi, configurazioni e usi, è un terreno tutto da scoprire e da performare con le nostre presunte capacità di giocatori. La superficie del tavolo in questi anni si è degradata, sul piano si sono formati centinaia di buchini, fossette, avvallamenti e tante altre imperfezioni, che fa sì che il gioco non sia solamente accidentale, ma assolutamente imprevedibile e, questo, non solo mette costantemente  a dura prova le nostre labili capacità, al punto che le ha estese, dilatate nello spazio del tempo, il nostro e quello dei luoghi, .ma ci ha obbligato, in questi anni, a conformarci e a modificare il nostro stato, il nostro comportamento, ci ha obbligato e ci obbliga costantemente ad un continuo e incessante adattamento. A volte, mi pare che questo nostro fare somigli a quegli uccellini che, per mille cause e motivi, perdono il loro nido, costruito l’anno prima e che, profittando di materie nuove, fili elettrici al posto di fili secchi d’erba, riadattino la loro maestria della fattura con la nuova materia.

[1] Scrive Edoardo Boncinelli in suo meraviglioso testo che non capiterà mai di incontrare la propria morte

[2] Girometta: antica segheria e ora azienda per il commercio all’ingrosso e al minuto di legnami vari, collocata lungo la SS 412 (ex statale del Monte Penice), appena fuori l’abitato di Strà, frazione di Nibbiano (PC)

Ivan D’Agostini

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