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Dall'archivio:

Il Cavalletto, romanzo breve di Ivan D’Agostini- Capitolo 9, Orti

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Gli ultimi a essere raccolti sono i pomodori verdi (ottimo ingrediente per composte da accompagnare a formaggi e ai lessi da consumare nelle sere fredde, da far correre diritte e intonse nei vasetti, sin sotto il Natale).

Certamente sono Orti impagabili, per la vista e la preziosità dei loro doni. Qui, dove le auto sono pressoché inesistenti, il traffico assente e con esso pure l’asfalto, dove il battuto di terra costringe la strada ad assumere via via forme e consistenze sempre differenti, dove le colture sono il prato stabile e il bosco spontaneo, qui l’orto cresce bene, è protetto, l’ossigeno giornaliero, prodotto da castagni, noci, ciliegi, robinie, frassini, querce, maggiociondolo, noccioli e tanto altro, lo nutre con efficacia … ma mi sono accorto che non basta, anzi, questa forma diventa quasi egoismo.

Da quando siamo arrivati qua, non ho potuto fare a meno di osservare di quanto siamo, tutti, chi più chi meno, costretti in abiti che ci mostriamo convinti di indossare, a tal punto che pensiamo che possano essere solo quelli. E allora, perché fare quattro, visto che negli ultimi tempi una quinta casa si è aggiunta al borgo (costruita fuori dallo schema del cardo e più in alto rispetto al nostro pianoro, – frana pliocenica, la definì il buon Giorgio, geologo, amico mio – tanto che si fatica a considerarla della nostra cinta), anche gli orti sono diventati tali.

Cinque spazi da  realizzare ogni anno, sprecando risorse, energie, forse anche sprecando e buttando quei mini raccolti che, diversamente, se altrimenti organizzati, risulterebbero più utilizzabili. Ma mi sto perdendo su terreni che non voglio calpestare e, allora ricominciamo, dall’inizio, dalla base, dall’etimo della parola, che forse basta per l’abbrivio del discorso.

Dunque mi sono documentato, nei e tra i libri, anche quelli che ho acquistato nel lontano millenovecentottantasette su cosa significasse l’orto, una collana inglese (giusto per non fare pubblicità).

Primo significato: stare diritto, riferito a una cosa e, quindi, anche, «giusto, esatto, corretto, conforme alla regola o alla norma”. Rifletto e la cosa mi suona, concordo, insomma, mi dico: “Non posso accettare bovinamente le cose per come mi si dicono, devono avere anche una spiegazione convincente e, questa, tale mi pare (Dio ma perché il mio papà Augusto non mi ha spinto verso studi classici che così avrei imparato il greco e, forse, oggi sarei qui a dirvi le cose in altro modo, probabilmente più dotto ma forse meno convincente  … vabbeh, continuiamo”.

Secondo significato: Piccolo o medio appezzamento di terreno, spesso adiacente alla casa (o. familiare), recintato da muro o da siepe, nel quale si coltivano erbaggi e piante da frutto. Ma anche che, coltivare il proprio orto, significa pensare agli affari proprî, svolgere la propria ristretta attività, come lui coltiva il proprio orto e non si cura d’altro; prendere la via dell’orto come fosse la  più facile; non è la via dell’orto come dire che un cammino, un viaggio è lungo, difficile, faticoso, o che un’impresa è tutt’altro che agevole. Dante chiama orto di Cristo e orto cattolico la Chiesa e orto de l’ortolano eterno il mondo, governato da Dio (notizie tratte da quell’immensa mensa di internet).

Terzo significato: etimologia dal latino hortus che deriva da oriri cioè “nascere, sorgere”. Probabilmente, volendo impiegare ancora più tempo troverei altri significati, scomposizioni dell’etimo, ma mi fermo qui, perché l’ultimo mi convince e riassume, in sette lettere, ciò che sto cercando di dire nelle duemilacinquecentoventiquattro parole che precedono questo concetto: orto è nascita e organizzazione.

Ivan D’Agostini

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