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Il Cavalletto, romanzo breve di Ivan D’Agostini- Capitolo 8, L’albicocco

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Sono anni che osservo questa minuta pianta, รจ un alberello, cresciuto, a dispetto delle circostanze, in quei, oramai rari, vuoti urbani, che qualche anno fa, qualcuno ha deciso di raccontare e descrivere bene in un libretto, che tengo gelosamente e golosamente in studio[1].

Banchina del binario 2 della stazione (scarna, brutta, molto brutta, priva e chissร  perchรฉ, di una pensilina โ€“ tranne quella storica e malamente restaurata โ€“ se volessimo depredare lโ€™uso della parola- qualche decennio fa) della cittadina ove abito e mi viene il sospetto che qualcuno abbia voluto abusare della bontร  dei cittadini e della loro benevolenza. Infatti, chissร  perchรฉ nominarli cosรฌ, โ€“ i binari intendo dire, ย visto che sono soltanto due. Io li avrei chiamati: verso Milano e verso Torino, cassando dubbi per i viaggiatori sporadici, in partenza dalla stazione di Magenta. Ora, tra il parapetto del ponte della ferrovia e il parapetto del ponte per Viale Lombardia, uno sconosciuto (almeno a me) progettista ha pensato bene di lasciare uno spazio, cosรฌ che nel sottopasso sottostante, possa filtrare aria e un poโ€™ di luce. Orbene, per qualche fortuita combinazione (sarร  che la vita รจ costruita anche sui casi e sulle occasionali circostanze e questa รจ una di quelle), al piede del parapetto, il primo, quello della ferrovia), piรน o meno dove รจ collocata la struttura orizzontale portante, negli anni si รจ accumulata la polvere e tanto altro, in parte trasportato dal vento e in parte ย gettato lรฌ dal popolo dei viaggiatori in attesa del treno, financo finito lรฌ per qualche altro inaspettato e imprevisto caso del destino.

Quindi, รจ capitato lรฌ anche un nocciolo di albicocca, buttato, sputato, trasportato, vomitato, messo lรฌ apposta, non lo so. Fatto sta che, ad un bel momento, immagino un febbraio molto caldo o un marzo inconsueto, freddo, piovoso, ventoso, dalla spalmata di caldo africano e neve pesante, dalla crosta dura, forse anche dopo un anno di letargo al sole, acqua, gelo, neve e poi vento e acqua e sole (alcuni noccioli impiegano anche due anni prima di germogliare โ€“come i noccioli del ciliegio -), qualcosa ha bucato la scorza dura del seme che nel frattempo, allโ€™umido e a tratti anche caldo del luogo (quel tepore che sale dai tubi di scappamento delle auto o degli autocarri che sostano un poco prima della salita verso il centro e che, nel tragitto verso lโ€™alto del cielo, drenano le malefiche sostanze della combustione e lasciano solo il caldo che si alligna tra le pieghe dei cementi e sabbia e minuti detriti) si era ammorbidito.

Da prima รจ emerso un pelo biancastro, che a poco a poco si รจ inturgidito bucando lโ€™aria, che nel frattempo aveva iniziato ad intiepidirsi, e ha preso consistenza; forse, persino coscienza della sua esistenza precaria (quale non รจ?). Successivamente, non appena il candore si รจ affievolito, per lasciare spazio al verde nutriente della clorofilla, dalla punta sono sbucati altri due peletti, che in qualche giorno si sono appiattiti, dando vita e corpo a due foglioline โ€“dicotiledoni-[2], che hanno aperto la via a foglie sempre piรน numerose, che sono successivamente diventati fusto, un tronco dalla scorza rugosa, permeata delle difficoltร  dellโ€™esistenza. Una superficie materica e piena di carattere e che dopo qualche tempo ha iniziato ad elargire e a vomitare fiori e frutta a volontร .

Pensando e riflettendo su quella scorza, non posso fare a meno di compararla a quei visi, scavati dal fango e dalle fatiche della terra, visi di minatori cileni, di contadini sardi, vietnamiti, cinesi, messicani, di tutti i contadini del mondo che soffrono assieme alla terra quando essa fatica per dare frutta e semi. Non posso fare a meno di comparare quella scorza cotta dal sole, scavata dal vento, bucata dal gelo alla pelle degli uomini che hanno vissuto tanto e che tanto dimostrano della loro, spesso, tribolata esistenza ma che sorridono allo sguardo di un infante gioioso. Mi vengono in mente le immagini congelate in uno scatto di Salgado, di Steve Mc Curry, di Jay Maisel, di Cartier Bresson, maestri dellโ€™attimo, che diventa piรน significante di tante belle parole, quel flusso al quale io, drammaticamente non so cedere e chi mi sforzo di piazzare, una dietro lโ€™altra, quelle mille e piรน parole, per dare circostanza a quegli attimi.

E dunque, spesso, quellโ€™albero รจ lรฌ a ricordarmi anche questo.

Ma โ€ฆ

[1] Giungla sullโ€™Asfalto (la flora spontanea delle nostre cittร ) di Daniele Fazio โ€“ Blu Edizioni Torino 2008

[2] Questo lo so non perchรฉ fossi lรฌ ad assistere alla cerimonia โ€“poichรฉ tale รจ โ€“ quanto perchรฉ cercando di interessarmi un pochino dei per come e i per quando porre, piantare e altro sulle verzure al Caselle, ho letto qualche libercolo sullโ€™argomento, profittando pure dei dotti e illuminanti consigli del mio caro amico Mario Allodi, sommo architetto paesaggista, preside della Scuola di Arte e Messaggio, con il quale mi รจ capitato di dividere e condividere brani della mia tormentata (ma ho capito che lo รจ per tutti) e felice esistenza.

Ivan D’Agostini

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