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Il Cavalletto, romanzo breve di Ivan D’Agostini- Capitolo 8, l’albicocco

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Accade che in primavera, ogni primavera, i fiori, una corolla di cinque petali di colore bianco con timide venature screziate di rosa, a volte, non  restino troppo sul gambo porta frutta. Api e altri insetti impollinatori hanno un bel da fare, combattono con l’aria feroce e veloce dei treni rapidi che passano da lì senza fermarsi. Allora, con la velocità, è’ tutto un frullare in giro, tra la banchina, i binari, la recinzione in cemento grigio chiaro e scuro dell’intorno di petali candidi, che anziché essercene uno, di alberello, fossero cento, sicure che parrebbe di camminare su di un morbido e caduco tappeto vegetale (mi vengono subito alla mente alcune fiabe di cui ho perduto memoria del titolo e dell’autore).

Ah, che se ci fosse Marinetti ed altri a coniugare il senso e la filosofia della ritrovata velocità, e lui e il futurismo, di questo nuovo mondo che cozza, forse, con il senso atavico dell’esistenza sovrana nel mondo, a dispetto delle mode e delle specie provvisoriamente dominanti, tali come noi siamo ora, farebbe un quadro scomposto e ricomposto, di quelle figure che si alternano nei passaggi mattutini e serali dei viaggiatori, cogliendo, nello sguardo, ora assonnato, ora stanco ,del viandante, la carità della sua voglia di costruirsi il quotidiano. Ma questo è un sogno e, di colpo, il profumo dolce dei fiori mi riporta al presente.

Talvolta però, l’insetto ha la meglio sulla tecnologia e instilla la vita nel fiore.

A giugno alcuni frutti sono maturi e qualcuno li coglie. Non so quanto la limatura sottile del ferro frantumato nel passaggio dai carri sopra le rotaie riesca ad entrare nei pori della scorza nella polpa, forse poco, forse tanto.

Uno non farà di certo male.

Ho perso la conta della vita di quest’albero e nulla mi obbliga a saperlo, vedo però che ogni anno diventa sempre più bello, nessuno lo pota a dovere (pratica che serve unicamente a far produrre più frutta alla pianta! Così dice l’esperto conoscente degli alberi), se di dovere poi si tratta. Nessuno lo cura e nessuno lo innaffia; fa tutto da solo; sarà, immagino, il capostipite di una nuova specie. Provo il nome, storpiando il latino, chiedendo venia e comprensione sin da ora, ai più illustri e sapienti esperti e conoscenti della materia (che la mia prima insegnante di latino: la Diva Stella in Moro, piccola e preziosissima femmina dalle labbra scarlatte che indottrinava noi, feroci e imberbi scolaretti, in quel di via Lomeni nella vecchia scuola dall’altisonante e aereo – per via della professione.- Francesco Baracca, sulle necessità del sapere e che del latino ne fece una sua, diventata poi nostra, ragione di vita e di esistenza): “Albicoccus bruno ferroviarius padanus ticinium”, il ticinium è l’omaggio al fiume, perché siamo vicino al grande fiume Ticino; sono certo che soppianterà ben presto gli oleandri collocati in bella fila (i pochi oramai rimasti) nelle stazioni della riviera ligure, tanto quella di levante quanto quella di ponente – per par condicio – o altre insulse piante, messe lì, anche se, meglio sarebbe dire, collocate, a sopportare il tempo. E sarà così che lui, l’Albicoccus, al contrario, sarà ben contento di ripopolare zone altrimenti destinate all’oblio vegetale, così che, saranno finalmente soddisfatti e appagati.

Ma perché questa cosa in verità, un poco mi assilla?

Devo ancora chiedere all’insulsa mente, mia, di andare indietro nel pensiero e, quindi, nel tempo, che, oramai ho capito, è senza misura e senza direzione, chiedendo venia al mio assiduo compagno di letture.

Ivan D’Agostini

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