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Dall'archivio:

Il Cavalletto, romanzo breve di Ivan D’Agostini- Capitolo 4, Extrasistole

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Attenzione: questo articolo fa parte dell'archivio di Ticino Notizie.

Potrebbe contenere informazioni obsolete o visioni da contestualizzare rispetto alla data di pubblicazione.

Sono seduto sul cesso, è un buon posto per pensare, sei da solo, in intimità (tu e il tuo corpo), in genere (se sei intelligente), anche privo di quella serie di dispositivi, che oggi assillano la vita: telefoni portatili, cordless, piccì, tablet, radio o altre diavolerie. Sei tu e le tue interiora che si muovono per scaricare il superfluo.

Già il superfluo; parola forse dimenticata dalle e nella quotidianità del vivere.

Quante cose ha immaginato, pensato, elaborato e forgiato l’uomo durante la sua (per ogni singolo essere) infinita esistenza? Troppe, a volte mi chiedo, confutando però immediatamente questo atroce mio pensiero.

Le mani sono appoggiate alle ginocchia, i pantaloni abbassati, la mutanda risvolta leggermente sulle pieghe, strane, dei calzoni. Guardo la pelle, sembra scura, sarà la luce delle lampade, cerco spazi tra grinze della pelle delle dita, ne osservo le nocche … strano mi sembrano le mani di mio padre. Quelle mani mi hanno sempre affascinato, questo suo fare di tutto, senza incertezze, ostentava costantemente sicurezza, forse è il mestiere del padre. Un esempio e un riferimento alla vita della progenie.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Credo debba essere così.

Anche lì il superfluo era superfluo, a suo modo assente, quindi.

Ritorno alle dita e alla mano. E’ quella la nostra energia!

Penso al binomio mano-mente. Penso, acchiappo e faccio.

E’ così!

I minuti passano, forse dovrò alzarmi o mi faranno male le gambe, dopo. Ma qui i pensieri mi sembrano più chiari, le impressioni di una giornata paiono concretizzarsi in pensieri definiti. Tolgo quello che non serve (quantomeno a me, esattamente come quello che sta facendo il mio corpo) e le idee diventano reali. Starò qui ancora un po’.

Prendo un foglio di carta e inizio a scrivere. Ho sempre una penna nel taschino della camicia (tutte le mie camicie hanno una tasca, non ne capirei una senza, del resto non vado al Gran Galà e lo smoking non lo possiedo e la camicia liscia non fa per me, sono un tipo rustico, elegante ma rustico) e se l’inchiostro tiene, stenderò i miei pensieri.

Scrivo spesso con la penna stilografica. Quello scorrere dell’inchiostro sulla carta, che riempie gli spazi, il corpo delle lettere che varia di spessore a seconda se tiri o spingi la penna (anche se poi la stilo va sostanzialmente sempre tirata, ne sanno qualcosa i mancini …) a seconda della velocità con la quale la scrittura raccoglie i pensieri che vomita la mente, che li mette in concreto perché, altrimenti, apparterebbero a me solamente e solo per poche frazioni di tempo, gocce che si dissolverebbero nel mare immenso della vita dell’universo.

Il blu avanza sul foglio chiaro, bianco e candido, un candeggio di certo ne ha lavato via il superfluo –ancora?… -, le righe si infittiscono, mantengono l’orizzontalità delle linee, la distanza è sempre uguale, costante, sembra un treno che fila veloce sulle rotaie lisce, senza sobbalzi. Scarni e radi i ripensamenti. E’ un po’ il mio mestiere, comporre, ordinare, dare un senso anche quando il senso non c’è e, forse, il vero senso è trovare il non senso, quel superfluo, che avanza pedissequamente nel tarlo dei mie epigoni pensieri.

Quei pensieri che, anziché condensarsi, si frastagliano, si sminuzzano e cercano, polverizzando le parti incoerenti che così vengono sospinte dalla leggera brezza della riflessione che avanza, una personale strada.

Ognuno, ha la sua strada.

Ivan D’Agostini

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