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Il Cavalletto, romanzo breve di Ivan D’Agostini. Capitolo 11, la Pierina

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La veste nera, una gonna nera, lunga sino alle caviglie, il grembiule a fiori, stampato, i cui disegni delicati e ripetitivi, forse, inneggiavano le sue moine e movimenti. Il volto segnato dalle fatiche, improbe, per aver trascorso una vita, nel modo in cui, diversamente da altre, ne avrebbe consumate almeno dieci, con un sorriso dettato da un unico dente, posto e collocato appena sotto la gengiva superiore, che, così, le avrebbe consentito di spezzare e frantumare il poco cibo secco che consumava quasi esclusivamente di giorno.

Stava spesso fuori, come si conviene alle contadine di tutto il mondo, dall’albeggiare al tramonto, sempre attenta al fuoco che ardeva nella vecchia stufa e, che fosse gennaio o luglio, poco importava, “e che diamine”, raccontava a noi villeggianti e strani esseri venuti dalla città con il timore suo, malcelato, che noi potessimo, in qualche modo,  ledere quel territorio, fatto di costanti e minute attenzioni, “occorre mangiare tutti i giorni ,nehh?”

La Pierina stava lì tutto il tempo, anzi era stata lì tutto il tempo della sua vita. Da lì a poco dopo il nostro arrivo avrebbe però traslocato, per necessità e contingenze di quell’unico figlio, in una casa, che sarebbe stata, ahimè per lei, l’ultima sua dimora: località Ca’ del Diavolo, nome che intimoriva e, per la verità, a passarci nelle sere d’inverno, magari con la pioggia e le nuvole basse, quel posto metteva un poco di paura.

Ma nel tempo che il Padreterno le aveva concesso di vivere, era stata al Casello (sulle carte del vecchio IGM –Istituto Geografico Militare- la località è denominata Caselle di Sopra), come lo chiamavano i vecchi dell’intorno, nel posto dove era nata, cresciuta, e maturata e ispessita proprio come maturano e diventano gialle e scure le zucche. Anche lei, a suo modo, aveva una zucca tutta particolare. Ci aveva un poco detestati, e lo si capiva: stavamo accaparrando la casa che un tempo era sua e che, ora, quell’unico figlio vendeva per necessità e contingenze della vita. Dura la vita del contadino nelle valli, in buona parte delle valli del mondo.

In questi anni ho pensato, a tratti e nei ricordi di quella donna minuta e dall’aria a me scontrosa, cosa avesse avuto davvero dalla vita: un marito, che alcuni mi hanno definito burbero e forse aggressivo, un figlio solo e tanta, ma tanta, fatica. Negli anni passati né il clima, men che meno le condizioni dell’intorno, favorivano le comodità in quel tratto di civilizzazione forzata, nel tratto del  bosco strappato al bosco, l’inverno lungo e nevoso, il sole, che tutt’ora scompare dietro la cresta morbida del tratto di pendio della collina, che scivola dal fianco del Monte Aldone tra dicembre e gennaio, la strada stretta, fangosa e impervia, per raggiungere il primo borgo abitato, dove il figlio avrebbe frequentato la scuola elementare in una strana classe mista: dalla prima alla quinta tutti assieme (il primo segnale di una vera globalizzazione, sic!), dettavano condizioni che a noi, ora, pare provengano dalla storia, un racconto che si perde lungo i tratti del tempo, eppure, eppure erano lì e, per certi versi, sono lì con noi ora.

Me la ricordo come se fosse ora, quando dovette vestirsi di tutto punto per il rogito. Il notaio, un omino con la faccia e l’andamento dell’azzeccagarbugli, che cercava di spiegarle le cose, senza tanta pazienza, al punto che la Lì intervenne un paio di volte a chiarire alla nonnina alcuni passaggi un poco complicati.

Le case son sempre affari complicati, sia da vendere che da acquistare, figuriamoci quando poi nella vita non si ha mai né venduto né acquistato alcun ché.

Seduta in un angolo, la vecchina ascoltava e cercava di capirne i passaggi, sorrideva in modo strano, forse ironizzava a suo modo, con una cantilena mentale a noi nascosta, quei passaggi che sancivano la fine tronca di alcuni suoi desideri o la scomparsa di alcune sue passioni, chissà forse era stato lì che si era concessa a quell’uomo, il suo, il primo e, magari anche l’ultimo e, quindi, il solo, ma forse, meno prosaicamente, quello che cercava di capire era il perché della scelta di quel suo unico figlio. Quel cumolo di pietre era, a quel tempo, quasi inservibile. Parte della muratura si era piegata verso il lato est e stava cedendo alle flessioni del terreno, il tetto stava ancora unito, ma nessuno avrebbe scommesso sul tempo breve; lo stallino, che guardava a nord, , privo di chiusure, denunciava oramai il lento progredire del disfacimento. Solamente la facciata a sud, a suo modo protetta dall’altra casa, quella che ora abbiamo inglobato in un unico volume, e l’ultimo fronte, quello a ovest, dove ancora troneggia quella vite, che ad agosto matura e che curo con tanta dedizione, acciocché si possa preparare una deliziosa marmellata, non presentavano i vistosi segni del decadimento. Due prospetti che mi hanno, ci hanno catturato la mente, lo spirito, il cuore, l’animo e tanto altro e, la Pierina, aveva capito tutto e, giustamente, gelosa di quel possesso, non avrebbe voluto privarsene. E poi, perché tenerlo e perché ancora venderlo e poi chi mai avrebbe potuto comperare una simile rovina: di sicuro qualche milanese, attratto dalla vita in campagna e dalla pseudo solitudine, ma lì, troppo rustico, troppo difficile per la gente di città!

Ivan D’Agostini

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