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Il Cavalletto, romanzo breve di Ivan D’Agostini- Capitolo 10, Sentimenti

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Accade, a volte, che ci si fermi, con lo sguardo, sul bordo, sul contorno, sul profilo dei volti che conosciamo. Spesso, mi soffermo sul volto di lei.

Lei non è mia, non possiedo nulla, anzi al contrario, dono me stesso. Restituisco, con moneta che non conosco, quel tanto che quotidianamente  e inconsciamente mi viene dato. Lei non si concede a me, mi dona la sua eterna compagnia.

Pensavo a queste ed altre cose, una sera di un inverno di tanti anni fa. Fuori la neve si era rappresa sulla crosta della terra gelata e aveva costruito su di essa una seconda pelle. Lassù, in mezzo al bosco del Caselle, appena fuori e oltre la casa, tutto era dipinto del candore della soffice neve, che ora si era contratta nella morsa del gelo. Ero uscito al freddo, dentro il fuoco scoppiettava nel braciere del camino e nell’intimo focolare delle stufe: il calore, aiutato anche dalla meccanica della caldaia appena cambiata, aveva invaso tutti i locali, si stava decisamente bene ma, la serata aveva preso una piega strana, strampalata e, per nonnulla, avevo discusso, tanto, alzato persino la voce e ci eravamo deliziosamente mandati a quel paese. Forse, addirittura, ero stato anche volgare e violento nelle frasi e così, ero uscito, per raffreddare e pacarmi la mente e i pensieri. Indossato il vecchio giubbotto di montone (quello acquistato alle Baleari tanti anni prima, all’epoca del nostro striminzito viaggio di nozze e mai pagato per un disguido, a mio favore, della carta di credito), infilato tra le labbra un ammezzato toscano (un Garibaldi), mi ero immerso nel gelo della notte e avevo iniziato a passeggiare, pestando la neve gelata, che un poco era sollevata sul prato.

La Luna illuminava il mondo e anche quel tratto nascosto alla vista dei più.

Eravamo, quella sera, io e la Lì, gli unici esseri umani ad abitare il luogo, e come si poteva stare uno dentro e uno fuori?

Iniziai a pensare all’amore e ai suoi paradigmi.

Iniziai a smontare le mie certezze: svincolavo, dal mio presente le presunzioni della mia ingordigia di ragione e cercavo, pur con intensa e immensa fatica, di comprendere le sue ragioni e i miei torti, pur ammettendo, tenuamente, di aver pure una debole ragione.

Spaventato, più dalle mie considerazioni che altro, decisi di camminare, diedi un fugace sguardo all’interno: lei se ne stava quasi rannicchiata sul piccolo divano accanto al camino. Ol colore della struttura di abete in quegli anni si era ispessito e il  bianco candore dei cuscini emergeva dal fondo e la sua figura, i suoi capelli neri e riccioluti, risaltavano, facendola sembrare più importante, senza per questo perdere quella leggerezza che avevo colto anni prima. Abbandonai quell’immagine per avventurarmi nella strada nel bosco.

Non ricordo il tragitto, forse le mie gambe conoscevano a memoria le tracce che in quegli anni avevo segretamente impresso nella mia memoria. Quel luogo magico aveva anche questo sapore, ma ricordo i pensieri che si costruivano mano  a mano che la strada impregnava di fatica i miei arti. Camminai a lungo, di fronte a me, la strada, a tratti palesava ombre, impronte, piccoli ostacoli: sassi scaraventati dalle balze ripide da incauti caprioli e rami piegati dal peso della neve fattasi ghiaccio; mi capitava anche di scivolare un poco nelle piccole discese o, al contrario, arrancando nelle salite trovando a fatica il giusto grip sotto la suola degli scarponi. Ogni tanto mi fermavo, cercando con lo sguardo la posizione dell’astro notturno, un poco per darmi un segnale d’orientamento, un poco per riprendere il fiato, un poco per lasciare depositare nella memoria le riflessioni che di continuo elaboravo.

Ad un tratto mi venne in mente una frase che le dissi una delle prime volte che le parlai: “Le pieghe delle palpebre dei tuoi occhi sono morbide e gentili come i pensieri che mi ispiri, ti amo per i tuoi profondi silenzi e per quei baci che mi doni.” Gli occhi, già gli occhi, quegli occhi che ridono e che piangono, che sono tristi e melanconici o che, al contrario si illuminano di gioia. Ad un tratto mi parve di vederla lì, accanto, anzi, di fronte a me. Confesso che ebbi paura, un timore pervase il mio corpo e un tremolio si diffuse nella mia pelle.

Ivan D’Agostini

Questo articolo fa parte dell'archivio di Ticino Notizie e potrebbe risultare obsoleto.

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