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Il Cavalletto, romanzo breve di Ivan D’Agostini- Capitolo 10, Sentimenti

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Potrebbe contenere informazioni obsolete o visioni da contestualizzare rispetto alla data di pubblicazione.

 

Decisi di invitarla nella dimora di campagna. Era d’estate, uno di quei mesi di luglio tremendo, in città l’afa era insopportabile e, decisi di trasferire armi e bagagli in collina (strano pensai alla mia similitudine).

Del resto, negli ultimi anni, la tecnologia aveva raggiunto anche quei luoghi, tanto che mi potevo permettere di manovrare i miei progetti da remoto. Organizzammo una loro visita da noi. Dissi: “Puoi arrivare con tuo marito, qualche giorno al fresco ci permetterà di allestire bene le nostre idee di progetto, non trovi?” rispose che avrebbe cercato di convincere il maritino, ero certo che avrebbe saputo bene utilizzare le sue raffinate armi.

Arrivarono nel pomeriggio, li sistemammo nella camera a est, quella dei grandi quadri, era intima e raffinata, guardava sul grande giardino e verso la cresta della collina. Quel tratto disegnava un profilo che nutriva quella lontana prospettiva, arricchendo il quadro complessivo. Furono entusiasti della nostra scelta.

Il pomeriggio trascorse piacevolmente, la piscina che avevo fatto costruire qualche anno addietro, una sorta di laghetto integrato nel paesaggio, era deliziosamente inserita nell’ambiente: nuotare in mezzo a pesci rossi e piccole tartarughine non era cosa consueta, si divertirono un mondo, le tife facevano da spalla allo specchio di fito depurazione, nascondendo la complessa rete tecnologica di depurazione delle acque. Solo lei se ne accorse e si complimentò della mia scelta. Precisai che era stata una decisione comune, anzi, le dissi, è stata mia moglie ad esigere che fosse costruita così, non avrebbe mai tollerato una piscina da riccastri in mezzo al bosco.

La sera cenammo sotto il grande tendone in mezzo al prato, facendo un po’ la spola dal tavolo al barbecue. Lo sfrigolio della carne sulla brace faceva a gara con i trillo dei grilli: erano le sole musiche. Come sempre la cena è il momento della fusione tra le persone, ci si confida, un bicchiere in più e ci si lascia andare. Ad un tratto lei esclamò: ”Oh mamma mia, ma ci sono le lucciole, che belle, che belle …” divertita, mia moglie aggiunse: “Perché non li porti sulla strada alta?” e, rivolta a lei: “Andate, vedrai che spettacolo …”. Lei si alzò di scatto, precedendomi di poco, prendendo per mano me e il suo consorte, che rifiutò, adducendo la scusa di avere forse abusato troppo dei mie preziosi vini. Andammo solo io e lei.

Nel buio del bosco mi teneva la mano, per gioco, scherzando sulla mia eventuale brutalità di orco cattivo. Sul pizzo della strada le lucciole ci circondavano, ronzavano attorno a noi, illuminando non poco il terreno. Sentii la sua mano su di me, sentii il suo profumo avanzare verso la mia carne oramai stordita dal suo aroma. La presi così, appoggiata alla scorza di un noce in crescita, e ci sembrava che la luce virando venisse anche dall’interno dei nostri corpi. Sotto scorgevamo le luci della casa, tremolanti come noi. Fu una notte lunga.

Caspita ero stordito, in duemilacentotrentaquattro parole, quell’ignoto scrittore, era riuscito ad inquietarmi, aveva reso possibile l’assenza di gravità sulla terra (la mia), senza alcun intervento sulla fisica e senza l’ausilio di qualche strano marchingegno; lo stavo paragonando ad uno Jules Verne, trasportato nell’aura dei sentimenti.  Chissà cos’altro avrebbe potuto suggerirmi quel piccolo genio, avevo quasi timore di approfondire l’argomento e, per quanto potesse, allora, apparirmi strano, avevo quasi la sensazione di identificarmi, per qualche minuta analogia, al protagonista.

Un dilemma: continuare e risolvere l’arcano o abbandonare precipitosamente la lettura, quasi che la fine potesse rivelarmi la porta dell’Averno o del fatato Paradiso?

Indeciso sul da farsi, vidi che la Luna aveva cambiato posizione e, certamente anche noi con essa, nella geometria delle ellissi cosmiche. L’aria si era fatta frizzante, nell’intorno del bosco era la quiete, anche i festosi e irrequieti grilli avevano ceduto alle braccia di Morfeo. Solo qualche frettoloso voltatile, che non identificavo, cercava di ruggire nel folto del verde rigoglioso alle mie spalle. D’un tratto mi accorsi che il Bosco può essere inquietante, tenebroso, ombroso e non per le proiezioni del sole, come dice la nostra comune amica Claudia: “A volte mette paura”.

Guardai dentro al volumetto, non mancava molto alla fine, ma cionondimeno decisi, per quella notte, che era già ampiamente terminata, tanto che, sul profilo delle creste delle colline a est, la Luna si sbiadiva per lasciare posto al disco rosso che, da lì a poco, sarebbe riemerso dal corto sonno estivo, di interrompere la lettura. Chiusi le pagine una sopra l’altra, quasi a proteggere quella filosofia particolare, riassettai i cuscini delle poltrone di legno, e mi avviai verso la cucina per il solito bicchiere di latte serale.

Quel mattino la Lì si alzò presto e mi trovò addormentato sul divano con il libretto fra le mani, mi svegliò con una buona tazza di caffè, strano non accorgermi dell’aroma che aveva invaso le stanze:

“Arrabbiato?”

“Certo che no, lo sai, il rancore non porta nulla, siamo in disaccordo, lo sai, ma forse questa è la nostra energia.”

“Dai, vieni che facciamo colazione che poi devi andare in studio … é così, vero, ti hanno confermato l’appuntamento?”

“ Eh si, ma vado e torno, tanto ci sono Niko e Maurizio se dovessi avere bisogno di qualcosa”

Il Caselle non è posto da poter rimanere senz’auto.

“Vedrai che magari dai tuoi avvocati ci sarà qualche bella biondina, ehhh…”

Qualche bella biondina, magari come quella del racconto, mi dissi. Usci, non prima di avere preso il libretto e infilato nella borsa.

Ivan D’Agostini

 

Questo articolo fa parte dell'archivio di Ticino Notizie e potrebbe risultare obsoleto.

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