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Dall'archivio:

Il Cavalletto, romanzo breve di Ivan D’Agostini- Capitolo 10, Sentimenti

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Attenzione: questo articolo fa parte dell'archivio di Ticino Notizie.

Potrebbe contenere informazioni obsolete o visioni da contestualizzare rispetto alla data di pubblicazione.

 

Corsi verso casa, la luce sotto la pergola, ora spoglia, mi indirizzò. Timidamente guardai dentro, piano, senza far rumore, per quanto nella neve si possa far rumore; dalla vecchia grata della piccola finestra scavata nella pietra della vecchia facciata della costruzione emergeva una luce strana, forse usciva anche un fluido, il suo, il nostro. Non so per quanto tempo rimasi così, ma dopo un po’ lei si accorse di me, si alzò e uscì venendo verso di me, mi abbracciò: “Vieni dentro, fa freddo qua fuori, entra amore mio.”

Ecco è così  in quel luogo, e oggi come  allora, noi troviamo risultato delle nostre disarmonie, quelle distonie che nella vita si succedono, incessantemente. Non so dire se è il bosco a suggerirci questo, ma di certo in quel buco di mondo noi sappiamo che ci sono i nostri perché; al dire la verità, tutta quanta (ed è chiaro che quando si scrive la verità, anche quella nascosta, emerge, che lo si voglia o no; si capisce quando forziamo la mano nelle nostre millantate confessioni e  mentiamo, perché la fantasia prende il sopravvento dalla nuda e scheletrica realtà che, spesso si rivela per quel che è.), sappiamo che sono lì ma che il più delle volte non ci riesce di decifrare, di decrittare da quella scrittura in codice stimolata dalle nostre superfetazioni mentali, strutture che aggiungiamo al castello, spesso traballante, della nostra identità.

 

 

 

 

 

 

 

E’ già difficile spiegare a noi stessi chi siamo, figuriamoci poi se il quesito raddoppia.

Ci conforta e rassicura la certezza che quei perché si trovano  lì e noi, testardi come siamo, prima o poi troveremo il nascondiglio e li tireremo fuori, alla luce del sole e inizieremo la lettura  e, se possibile, la comprensione e l’applicazione.

Anni fa, quando si era all’inizio, temevo per questo amore che nel tempo si è annodato attorno alle nostre esperienze; temevo e soffrivo per una ragione a me oscura allora. Temevo che un giorno potesse accadermi di non amarla più; temevo che un giorno l’acquasantiera del nostro sentimento potesse asciugarsi e temevo di non poter avere qualcosa da riempirla nuovamente, attingendo dal liquido primitivo.

 

Il mondo dei sentimenti è denso di ferite, più profonde di quelle che lacerano la pelle e dalle quali sgorga il sangue che scorre nelle vene; per quelle del cuore a volte non c’è rimedio. E le ferite sono molteplici, variopinte nella loro manifestazione; lo capiamo sempre troppo tardi e ci danniamo della brevità della nostra terrena vita.

Uno dei temi costanti nell’io di ogni uomo è rappresentato dalla monogamia, che non sempre collima con il rispetto della fedeltà. Parafrasando possiamo dire che siamo fedeli al nostro macellaio, che ci fornisce da sempre la carne più bella, più buona, più sugosa di umori che emergono e si disperdono nel fondo della padella durante la lenta e inesorabile cottura (e mi si lasci passare la metafora un tantino azzardata, ma tant’è come usa dire!), ma che non ci sentiamo affatto in colpa se qualche volta, per i più disparati motivi, andiamo da un altro commerciante o, peggio, (sic.) anche al supermarket.

La nostra (occidentale e attuale) cultura, “suggerisce” e stabilisce la monogamia e la fedeltà alla compagna/compagno della nostra vita/esistenza, pena un castigo che a volte pare sin peggio di quello divino, di cui, per altro, non v’è certezza alcuna (nessuno è mai ritornato indietro, in questo nostro terreno mondo, per dirci come stanno le cose, là).

Certo, basta spostarsi leggermente, o piegare e traslare di poco la prospettiva, che le cose possono e, aggiungo, possono e non devono per forza, cambiare totalmente prospettiva.

Ivan D’Agostini

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