― pubblicità ―

Dall'archivio:

I primi 50 anni di Pat Rafter, il mohicano che incedeva al ritmo di Don Chisciotte- di Teo Parini

+ Segui Ticino Notizie

Ricevi le notizie prima di tutti e rimani aggiornato su quello che offre il territorio in cui vivi.

Attenzione: questo articolo fa parte dell'archivio di Ticino Notizie.

Potrebbe contenere informazioni obsolete o visioni da contestualizzare rispetto alla data di pubblicazione.

 

 

 

È fatto così, un uomo onesto. Una volta, in un torneo in Francia disputò il primo turno in maniera orribile. Perse la partita, chiamò l’organizzatore e restituì il gettone di presenza.
“Non ho fornito un bello spettacolo ai tifosi”, disse, prima di andarsene con il consueto fare educato. Paradossale, perché il suo è sempre stato un tennis meraviglioso, tanto che era oggettivamente difficile non apprezzare i suoi match arrembanti indipendentemente dalla noia della conta dei punti.
Pat Rafter, australiano del Queensland, aveva una peculiarità forse unica: suscitava profonda nostalgia anche nel fiore dei suoi anni, come in quelle occasioni in cui si ha la sensazione di essere protagonisti di un’ultima volta. Infatti, l’ultimo, Michael Patrick – così all’anagrafe ma per tutti solamente Pat – lo è stato davvero. L’ultimo capace di sfidare i mutamenti epocali che hanno rivoltato il tennis come un calzino negli anni ’90, quelli che hanno sdoganato il corri-e-tira teorizzato dal compianto Bollettieri, con la rivisitazione vincente del gioco verticale in assenza di racchette di legno. Un apparente controsenso se analizzato con gli occhi di oggi, dove l’unica traiettoria verticale che impegna i tennisti è quella che li conduce a stringersi la mano a fine match. Pat ha incarnato la sublimazione della regola vecchia quanto gli albori dello sport che fu pallacorda ed eleganza, prima che atletismo e forza bruta, per la quale ogni singolo quindici nasce a fondocampo e si conclude a rete. Verticalità, appunto, su e giù, giù e su.

Il suo talento si percepisce in abbondanza fin da ragazzino, ma a credere ciecamente in Pat non c’è la fila nemmeno a vent’anni, quando il dritto proprio non vuole saperne di incidere e anche sul lato migliore, quello del rovescio giocato rigorosamente a una mano, i progressi che faranno dello slice una leggenda balistica sono ancora piuttosto lontani. Così, quelli che anche all’epoca avevano il vizio di autodefinirsi addetti ai lavori ci presero poco quando, osservandolo giocare, gli pronosticavano al più una dignitosa carriera da Top 50 e la gloria annacquata del doppista. Del resto, con i nuovi bombardieri in scuola Agassi a dettare la via, per fidarsi di uno demodé come Rafter era necessaria una quota della sua stessa follia, oltre che la necessaria competenza.
Cosa che non mancava di certo a Tony Roche, il guru australiano. Nel cui curriculum, come unico parziale fallimento, l’ambizioso tentativo poi naufragato di far vincere Wimbledon a Ivan Lendl, in un’epoca nella quale l’erba era ancora erba e quindi uno scoglio insormontabile per le gestualità ruvide come quelle del formidabile cecoslovacco. Il sodalizio con l’allenatore e connazionale viene edificato su una certezza: per puntellare un gioco offensivo ai limiti delle possibilità umane occorre mettere mano al fisico che dev’essere esplosivo nella presa della rete e, insieme, resistente, ciò affinché il gesto più iconico, che è uno sparo del cannone nella presa della Bastiglia, possa essere ripetuto con la stessa lucidità mentale e freschezza muscolare per ore e ore. Impresa ardua, il piglio del centometrista e la caparbietà del maratoneta. Tony chiede dunque a Pat di sviluppare e collocare al posto giusto tre tasselli imprescindibili: un servizio robusto, che significa il giusto compromesso tra un buon numero di punti diretti e lo strumento funzionale all’approccio della rete nei tempi consoni; una prima volée da giocare con l’elmetto in trincea, acrobatica quando serve; una seconda volée risolutiva, il colpo di grazia. Un progetto ambizioso.
Tutt’intorno all’ossatura portante, con il lavoro cresce anche l’imprescindibile resto del gioco e con esso arrivano i risultati. La svolta avviene a Parigi. Bois de Boulogne non si può certo dire che rappresenti il suo terreno di caccia preferito, terra rossa e Australia notoriamente non generano il connubio più redditizio, ma la sua cavalcata si arresta solo in semifinale quando a prevalere è uno che, al contrario, il mattone tritato ce l’ha impresso nei cromosomi come Sergi Bruguera. Eppure Pat non sfigura, al punto che era dai tempi di Stefan Edberg, o forse addirittura dal 1984 stellare di John McEnroe, che non si vedeva un gioco di volo altrettanto efficace sulla terra battuta. Qualche settimana più tardi, però, l’estate sul cemento nordamericano è tutta sua. A New York, sconfigge l’Agassi che non perdeva mai occasione per sminuirlo pubblicamente e poi, in finale, il granatiere Greg Ruesdski, incamerando così il primo titolo Slam della carriera. Per il bis gli sono sufficienti 365 giorni. Sulla strada dei secondi US Open incrocia Pete Sampras, un altro che nei suoi confronti non è mai stato troppo tenero. La partita che ne viene fuori è stupenda e Rafter se la prende di forza in rimonta. L’atto conclusivo contro il connazionale Philippousis, invece, è più romantico che bello. Pat è troppo superiore e la doppietta newyorkese è servita.
Rafter, prima della fine del millennio mette a referto un record bizzarro, breve e intenso. È l’estate del 1999 quando la lunga rincorsa al vertice della classifica si concretizza. Per il computer è il numero uno al mondo ma in vetta ci resterà – è questo il primato – una sola settimana e senza nemmeno giocare un punto causa infortunio. Tuttavia, l’aver guardato per una volta tutti dall’alto è il giusto riconoscimento per la qualità tennistica profusa. E pensare che gli rimproveravano di essere un perdente.
In via decisamente più opinabile, non essendo suffragata dall’oggettività dei numeri, oltre che meno edificante, ci sarebbe da ricordare un’altra graduatoria che lo riguarda da vicino. Pat Rafter, infatti, è per molti appassionati il giocatore più idoneo al gioco sui prati a non avere mai trionfato a Wimbledon. Pare impossibile, considerato l’armamentario da erbivoro di cui era dotato, ma la vittoria in Church Road resterà un tabù anche se ci va davvero vicino in due finali. Nella prima, l’anno è il 2000, Sampras vendica la scoppola subita a New York dodici mesi indietro. La seconda, l’anno dopo, è un pezzo indelebile di storia di questo sport e anche dello stesso Rafter che, di fatto, chiuderà la sua parabola sportiva di vertice complimentandosi con Ivanisevic, la prima wild card di sempre a vincere Wimbledon. Una partita infinita, a tratti bellissima e in altri drammatica, tra due atleti che non avrebbero meritato di appendere la racchetta al chiodo senza l’imperituro trofeo dei Championships in bacheca. Cara è la fine: un fisico usurato in fretta e il conseguente calo delle motivazioni sono il perentorio consiglio a dire basta, per un addio che sarà ufficiale da lì a breve, nel 2002, dopo poche e nemmeno memorabili apparizioni condizionate dagli insorti malanni di cui sopra. In mezzo, c’è giusto il tempo di perdere contro la Francia la finale di coppa Davis giocata da protagonista – fu assente nella vittoria australiana del ’99 – l’altro grande rimpianto di una carriera splendida che gli è valsa l’ingresso, già nel 2006, nella Hall of fame.
Rafter, uno che ai soldi ha sempre attribuito un peso relativo, che ha donato alla fondazione benefica da lui stesso ideata metà dei prize money guadagnati sul campo, che è stato insignito del premio Fair play per un gesto di grande sportività e che, en passant, non avrebbe certo sfigurato nella serie televisiva Baywatch, per la gioia delle teenager di allora, se solo lo avesse voluto, lo scorso 28 dicembre ha spento cinquanta candeline. Mezzo secolo di un ragazzo gentile a cui il mondo del tennis deve molto perché colpo di coda di qualcosa che la modernizzazione della disciplina ha di fatto reso irripetibile. Un lustro vincente, il suo, che è spartiacque: c’è un prima e un dopo. Sfidare un esercito di artiglieri con il fioretto e pensare di rimanere in piedi non è razionalmente una grande idea; trasformarla in un piano ben riuscito, invece, è il Don Chisciotte che annichilisce i mulini a vento, la rivincita dei visionari. “Il cavaliere errante senza innamoramento – scriveva Cervantes – è come arbore spoglio di fronde e privo di frutta; è come corpo senz’anima”. Rafter, questo pensiero lo ha fatto proprio imbracciando la racchetta e noi, nel quinquennio fuori dal tempo delle volée al potere, ci siamo divertiti insieme a lui.
Teo Parini

Questo articolo fa parte dell'archivio di Ticino Notizie e potrebbe risultare obsoleto.

■ Prima Pagina di Oggi