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“I corsi e ricorsi della Storia” Giambattista Vico, la tradizione umanistica ed il Coronavirus

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Durante la guerra del Peloponneso, 430 a.C., Atene fu colpita da un’epidemia mortale, recenti studi scientifici e scoperte archeologiche hanno fatto ipotizzare che si trattasse di una forma violentissima di febbre emorragica. Una rilettura attenta del poeta latino Lucrezio e di altri sparsi frammenti di testi medici della scuola di Ippocrate, sembrerebbe sostenere questa tesi. Secondo Tucidide, il contagio, proveniente dall’Africa e per la precisione dall’Etiopia, giunse ad Atene attraverso il porto del Pireo, l’ingresso principale alla città per uomini e merci. Il sovraffollamento urbano e le conseguenti carenze igieniche fecero il resto.

Dalle campagne infatti numerosissimi profughi erano fuggiti di nascosto per cercare tra le mura scampo e rifugio alla guerra. La paura della malattia e della morte trasformarono il modo di vivere degli ateniesi che non riuscirono a rispettare regole e leggi. Tucidide ed altri storici videro nell’epidemia una sorta di castigo degli dei e riferirono anche di voci tra gli ateniesi secondo cui i pozzi erano stati avvelenati (libro II, 48).

Nel Medioevo la peste ed altre epidemie costituirono un autentico flagello. La peste nera, diffusasi a partire dal 1300, imperversò in diverse ondate e ridusse di poco meno di un terzo la popolazione europea del tempo: ciò significa che, stimandola approssimativamente in circa settanta milioni di abitanti, le vittime furono venti milioni.

Fu una vera epidemia: il contagio avveniva attraverso le pulci che infestavano i ratti e da queste si trasmisero all’uomo che vivevano a contatto diretto fra loro. Come nel caso di Atene, nelle città colpite le abitudini degli abitanti, ossessionati dal contagio, si trasformarono spinte dalla paura e dall’incertezza. La scienza ufficiale del tempo, ovviamente empiricamente erronea, collegò l’epidemia ad altri eventi catastrofici naturali come i terremoti, che avevano liberato dalle viscere della terra una nube velenosa.

Di fatto la peste continuò ad imperversare anche dopo il Medioevo; una delle tante epidemie si scatenò nuovamente in Italia settentrionale tra il 1629 e il 1633, proprio mentre in Germania era in corso la Guerra dei Trent’anni. La particolare notorietà di questa epidemia è dovuta alla narrazione che ne fa Alessandro Manzoni nei ‘Promessi sposi’ e si può dire che molti personaggi e situazioni siano ancora vivi e vegeti nel nostro immaginario. Per prima cosa Manzoni racconta della guerra che devasta il ducato di Milano e dei profughi che riparano in città, poi dei primi casi di peste che non sono ancora dichiarati tali e dell’accorta prudenza delle autorità nel prendere una posizione precisa; le stesse autorità – nel racconto manzoniano – diventeranno latitanti abbandonando la città ai monatti, coloro che superata la malattia  raccoglievano i corpi delle vittime e ai frati cappuccini impegnati nell’assistenza al Lazzaretto, altra istituzione che dietro una copertura sanitaria sembra anticipare campi di ospedale dove mancava un po’ di tutto.

Emblematica la lettere inviata a tutti i suoi studenti dal Preside del Liceo Scientifico Alessandro Volta di Milano:” Lettera del Preside

AGLI STUDENTI del liceo Volta di Milano

“La peste che il tribunale della sanità aveva temuto che potesse entrar con le bande alemanne nel milanese, c’era entrata davvero, come è noto; ed è noto parimente che non si fermò qui, ma invase e spopolò una buona parte d’Italia …”.

Le parole appena citate sono quelle che aprono il capitolo XXXI dei Promessi sposi, capitolo che insieme al successivo, è interamente dedicato all’epidemia di peste che si abbatté su Milano nel 1630. Si tratta di un testo illuminante e di straordinaria modernità che vi consiglio di leggere con attenzione, specie in questi giorni così confusi. Dentro quelle pagine c’è già tutto, la certezza della pericolosità degli stranieri, lo scontro violento tra le autorità, la ricerca spasmodica del cosiddetto paziente zero, il disprezzo per gli esperti, la caccia agli untori, le voci incontrollate, i rimedi più assurdi, la razzia dei beni di prima necessità, l’emergenza sanitaria…. In quelle pagine vi imbatterete fra l’altro in nomi che sicuramente conoscete frequentando le strade intorno al nostro Liceo che, non dimentichiamolo, sorge al centro di quello che era il Lazzaretto di Milano: Ludovico Settala, Alessandro Tadino, Felice Casati per citarne alcuni. Insomma più che dal romanzo del Manzoni quelle parole sembrano sbucate fuori dalle pagine di un giornale di oggi.

Cari ragazzi, niente di nuovo sotto il sole, mi verrebbe da dire, eppure la scuola momentaneamente chiusa mi impone di parlare. La nostra è una di quelle istituzioni che con i suoi ritmi ed i suoi riti segna ed insegna lo scorrere del tempo e l’ordinato svolgersi del vivere civile, non a caso la chiusura forzata delle scuole è qualcosa cui le autorità ricorrono in casi rari e veramente eccezionali. Non sta a me valutare l’opportunità del provvedimento, non sono un esperto né fingo di esserlo, rispetto e mi fido delle autorità e ne osservo scrupolosamente le indicazioni, quello che voglio però dirvi è di mantenere il sangue freddo … rispetto alle epidemie del XIV e del XVII secolo noi abbiamo dalla nostra parte la medicina moderna, non è poco credetemi, i suoi progressi, le sue certezze, usiamo il pensiero razionale di cui è figlia per preservare il bene più prezioso che possediamo, il nostro tessuto sociale, la nostra umanità, il nostro senso civico. Non quello politico, economico o di convenienza personale!

Vi aspetto presto a scuola.

Prof. Domenico Squillace

 

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