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I centri commerciali? Chiudiamoli proprio.. Da L’Intellettuale Dissidente

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C’os’è un shopping center, come si dice nella lingua del declinante Impero? Un agglomerato di venditori di merci per un popolo che arriva ansimante all’agognato weekend dopo una settimana di sgobbo, e che non vede l’ora di spingere il carrello della spesa per accaparrarsi quello che negli altri giorni non ha il tempo di procurarsi  – sia sempre maledetto l’Orario di Lavoro, da ridurre subito, ora, adesso, perché è fattibile e soprattutto giusto, e basta. Fare di necessità schiavitù, d’altronde, è la regola di vita degli schiavi (salariati). Non si può dunque condannare moralisticamente chi si precipita a far compere nel giorno del Signore evitando di intasare soltanto i già intasati sabati al moderno mercato. Anche perché ognuno avrà pure il diritto di usare quelle poche ore libere come meglio crede.

Non è col consumatore un po’ beota, anzi un bel po’ beota, che bisogna prendersela. Ma con chi lo costringe e induce a beotizzarsi imbruttendosi nella folla commerciale. E non solo di domenica, o di sabato: sempre. E’ il ricatto insito nella oliata macchina “produci, consuma, crepa” che sballa le nostre vite: o fai acquisti, o la produzione non gira. E crolla l’economia. Di qui la minaccia che puntuale viene sbattuta in faccia a chi s’azzardi a mettere una zeppa nella ruota dell’oppressione: se ci impedite di vendere – ululano i cani del commercio – i profitti calano, e ci tocca licenziare chi lavora da noi. Come nel famoso ovetto Kinder, dentro si nasconde un’altra coercizione ancora: i lavoratori della grande distribuzione sono di fatto coartati nella possibilità del riposo domenicale perché, ricevendo un compenso maggiore per le giornate domenicali, avendo paghe da fame è ovvio che scelgano di timbrare il loro bravo cartellino anche di domenica. Il circolo vizioso è implacabile: il centro commerciale tiene aperto grazie alla pressione sui dipendenti, invogliando la massa alle compere, e gli scontrini tengono in piedi tutto il baraccone.

Tengono in piedi? Eliminare (e neanche del tutto, ma a turno, col 25% di posti aperti) il secondo giorno più redditizio dopo il sabato, farebbe veramente la strage di 30 o addirittura 50 mila addetti, come gridano i lobbisti colpiti dalla legge che intende varare il governo dei “barbari” gialloverdi? Poniamo che sia vero, dando per buono che questi neo-samaritani di imprenditori, così toccati dalle sorti dei loro sottoposti, non sappiano far altro che licenziare. Scusate, ma perché allora non chiedono, come si fa nei tanto amati (da loro) Stati Uniti, di compensare il buco, tenendo le saracinesche alzate anche di sera nei giorni feriali, turnando e razionalizzando la forza-lavoro (che lo Stato dovrebbe tutelare con uno straccio di salario minimo)? Chiaro: perché vuoi mettere far trascorrere intere mezze giornate a far luccicare gli occhi davanti alle vetrine sospirando per prodotti che nella maggior parte dei casi non ci si può permettere, anziché ridurre il tempo per gli acquisti dopo aver staccato, che so, di martedì o giovedì, dedicandone meno al rito dello shopping?

Lo shopping domenicale, come anche i più stupidi sanno, è la messa dei tempi moderni. E’ più una liturgia che una funzione vitale (beninteso, vitale per noi topi nella ruota): non serve tanto alla soddisfazione del singolo bisogno (mi serve una camicia nuova), ma alla creazione di desideri possibilmente moltiplicati il più possibile (giro per quella camicia ma intanto mi accorgo, toh, che mi farebbe proprio comodo anche un nuovo ferro da stiro, e già che ci sono, mi fermo lì a pranzo, e magari anche a merenda ché se no il pargolo mi frigna). La dinamica desiderante è implicita nel consumo: di qui il consumismo. Ma rifulge ed esplode quando più si può sottrarre il vero bene nelle nostre mani, il Tempo, trasformato in merce attraverso il feticcio dell’appagamento materiale.

Ecco perché la legge di marca grillina è sacrosanta, e rappresenta il minimo sindacale: perché perlomeno fissa un sacrosanto limite all’orgia da fiera che ci fa spendere in misura oltraggiosamente inutile. Dicono i trecartari dei megacentri: così non si ottiene altro, in realtà, che favorire l’alienante e-commerce, gli onnipotenti Amazon e compagnia. Vuoi mettere invece intrupparsi come capre, stretti stretti vicini vicini, tutti beatamente incollati nelle fiumane domenicali? Ma signori intelligentoni, credete di darcela a bere così facilmente? A parte il fatto che su certi articoli la vendita online non decolla per ovvi motivi (difficile comprarsi una scarpa a distanza, bisogna provarla), la tendenza alla pigrizia del click è inarrestabile, e per frenarla bisognerebbe mettere le ganasce virtuali nei giorni comandati, il che è impossibile. Piuttosto, che si tassino molto di più questi immani colossi – e in particolare su certi settori, per esempio i libri, così da salvaguardare le librerie, trincee del sapere – rivendicando la sovranità fiscale su bestioni che fiscalmente hanno il relativo domicilio in California. E in ogni caso, sapete che c’è? C’è che se starsene comodi sul divano utilizzando uno smartphone per comprare ci libera dal quasi-obbligato giro infernale dei negozi, allora ben venga anche Amazon. Perché ci consente di disporre di più della nostra esistenza per fare altro, anziché consumare, e consumare, e consumare.

Negli Stati Uniti dove tutto è cominciato, questi mostri di cemento e coazione alla spesa sono in ritirata. Nei più occidentali Stati europei che noi italiani, come al solito provinciali, teniamo come modelli da imitare, le domeniche si tiene chiuso. Ma non basta: noi invochiamo lo smantellamento completo. Graduale, pezzo a pezzo, restringendo via via il loro campo fino a svuotarli e ridando ossigeno alle botteghe isole di umanità, e sgombrando così, fra l’altro, vaste zone da restituire alla natura – magari convertendole a pascoli di pecore, con ironico e bucolico contrappasso. La legge in discussione è un buon inizio. Per chiuderli, questi centri commercio-anali (dell’ano nostro, anzi vostro perché noi abbiamo smesso di farci indurre in tentazione e ci siamo liberati dal male da mo’). E’ regresso, questo? E noi siamo per il Regresso, unico vero Progresso. Chiudiamo i centri commerciali!

Alessio Mannino, da www.lintellettualedissidente.it

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