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I campioni hanno due cuori- Roger Federer, metti un pomeriggio d’amore a Basilea, di Teo Parini

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Domenica, 28 ottobre 2018. Basilea, Svizzera tedesca, la Betlemme del tennis. Pianeta Terra anche se sembra Marte. Nella notte di vigilia le lancette degli orologi sono state spostate indietro di un’ora – è un evidente segno premonitore, si vuole vivere più a lungo l’attesa – ma di legale, in ciò che continua a sciorinare senza soluzione di continuità il ragazzo figlio di Chronos, non c’è proprio nulla. Una dimensione illogica.

In compenso intorno al palazzetto si è radunata al solito un sacco di gente, la voce deve essersi rapidamente sparsa per i cantoni. Merito della cometa e, forse, di una parabola nota ai più: quella di una famiglia stretta intorno al figliol prodigo, che non sperpera in maniera scriteriata ricchezze paterne ma elargisce, senza nulla pretendere in cambio, un’abbacinante forma di talento. A domicilio, per una volta.

Alla festa della natività tennistica ci sono anche i ball boy, una fresca e simpatica costante dello sport del diavolo, ma qui nel Deutschschweiz, in un’ansa del Reno al confine con Francia e Germania, l’aura di quelle piccole schegge impazzite, che tra genuflessioni sincronizzate e asciugamani a comando rimbalzano a mo’ di flipper su e giù per il playground, è decisamente differente. Grazie a una storia d’amore che arriva da lontano nel tempo, infatti, raccogliere le palline pelose che il budello sgualcisce a ogni impatto, qui, più che altrove, è quasi magia. Non per nulla tre decadi or sono, stesso posto e stessa ora, il Maestro Roger Federer era (solo) uno di loro, magrolino, maglietta e pantaloncini in educato pendant cromatico e, pare, vocione già da adulto, un marchio di fabbrica. Raccattapalle come molti altri coetanei, anche se a dirlo pare di commettere peccato, al cospetto di coloro che, di un tennis probabilmente tutta un’altra disciplina, rappresentavano l’acme sportivo degli anni Novanta. Stagioni per certi versi irripetibili, se non altro per i cambiamenti strutturali, spesso ingiustificati, successivamente introdotti nel gioco teorizzato dal Maggiore Walter Clopton Wingfield. Ma è un’altra storia.

 

 

Fatto sta che l’imberbe aspirante fenomeno, impaurito e con il cuore in gola, teutonico quindi disciplinato e con quella pettinatura demodé alla quale ben presto si sarebbe ribellato raccogliendo la chioma che fu fluente in un minuscolo codino – anche in Church Road nel sacro tempio di Wimbledon – dagli idoli di gioventù carpiva in religioso silenzio i segreti. Becker, Edberg, Sampras, Agassi erano, e non solo per lui, enciclopedie viventi dalle quali attingere competenza tennistica a piene mani. Quindici dopo quindici, tra una rincorsa e l’altra, il Federer di un domani luccicante scruta, riflette e rimpolpa il database, perché campioni, lapalissiano, lo si è ben prima di diventarlo. Desossiribonucleico, ma di qualità, più studio meticoloso uguale successo, la formula scientifica. Così è stato e di quello che successe poi, venti Slam con otto Championships per esempio, ne siamo tutti a conoscenza. Leggenda dei nostri giorni, con serenità.

 

Riscritta in stampatello la storia dello sport classico e aggraziato che fu di Bill Tilden – quasi una danza, bontà sua – Roger, il basilese donato all’Unesco, non ha affatto scordato gli albori, il piccolo raccatapalle insito in lui. Chioccia tra pulcini una volta all’anno, perché nel torneo di casa il protocollo, nel suo essere comunque svizzero, dunque impeccabile, si mantiene spontaneo, genuino. Che l’eroe della porta accanto, spasmodicamente atteso in patria per trecentosessantacinque lunghi giorni, vinca o perda, a nord delle Alpi, latitudini intrise di un’invidiabile cultura sportiva, si sorride, si stringono mani, fioccano pacche sulle spalle, c’è convivialità. In un’atmosfera benedetta da ultimo giorno di scuola o da rompete le righe che molto ricorda il rito dello Champagne, sorseggiato in sella dal vincitore del Tour de France durante la passerella finale sulla strada per i Campi Elisi. All’interno di un circus professionistico sovente gelido, impostato e formale, qui come altrove vige la legge del denaro, è come se per la propria celebrazione d’autunno – un fortunato rituale da ormai diciassette stagioni – Roger si adoperasse per circondarsi solo dagli affetti più cari. Concittadini agghindati a festa, e pure festanti, assiepati sulle tribune; una famiglia, la sua, chiassosa nei piccoli eredi e via via più numerosa nel box che Mirka, moglie e manager, dirige alternando rigore e sorrisi; i raccattapalle sudaticci e gioiosi ai bordi del campo che fremono per la cena con il campione, quando il pomeriggio d’agone, per un istante lontano dall’essere una maniacale priorità, sarà finalmente giunto a compimento. Pizza, un’italianissima pizza, perché dove c’è allegria c’è sempre un pezzettino del Bel paese.

É la grandezza di un uomo che, ormai prossimo alle quaranta primavere, con una bacheca debordante di trionfi e un conto in banca che è più o meno la finanziaria di uno stato europeo, riesce ancora a commuoversi per il grazie sincero e spontaneo di un bambino che vive, grazie a lui, il suo piccolo grande sogno. Allora piange Roger, gli succede spesso, nascondendo il volto con le mani al solito più avvezze ad accarezzare palline. E poi sorride Roger, con il trofeo degli Swiss Indoors sotto braccio, il nono qui nella St.Jakobshalle, arena che rappresenta il prolungamento virtuale della dependance di casa Federer. Perché va bene il clima vacanziero ma per chi della tensione fa un’inscindibile compagna di vita l’adrenalina da competizione non è mai abbastanza. Gente fatta così, che non accetterebbe di perdere nemmeno a rubamazzo la sera di Natale. La legge del nove, quindi, per il novantanovesimo hurrà di sempre. Una striscia vincente infinita cominciata a Milano, che nostalgia, il 4 febbraio del 2001. Lieto fine di una domenica di tennis non convenzionale che è un piacevole monito per noi appassionati: tra le imperscrutabili pieghe di un grande campione, psicologia complessa per definizione, c’è sempre un lato sensibile dominante che lo rende tale e che pertanto non deve essere celato.

En passant, ma davvero conta solo il giusto, una partita con tutti i crismi ieri si è ovviamente disputata. Due set piacevoli perché altalenanti, merito di protagonisti agli antipodi per palmares ma accomunati, fatte le debite proporzioni, da una naturale predisposizione per il bello. Nella dolce confusione sensoriale che ha coinvolto spazio e tempo, ricordi passati e speranze future di un pomeriggio sui generis, il lato ludico, in un contesto egemonizzato da un romanticismo non stucchevole, ha messo in evidenza un Federer, per amore di verità, bruttino per essere vero e un degno avversario di giornata, sparring partner nella migliore accezione possibile. Si tratta di Marius Copil, carneade per molti, forse, ma dalla manualità assai educata che, come spesso accade in uno sport infido come il tennis, risulta essere suo malgrado più un comprensibile narcisisismo che una carta vincente. In ogni caso, una piacevole rivelazione il simpatico e spigliato rumeno dal rovescio in via di estinzione, bravo a far convivere in un sol corpo clava e fioretto. La riflessione a bocce ferme è allora la seguente. Coniugare arte e pragmatismo è prerogativa di pochi fuoriclasse. Uno di questi eletti vorremmo non smettesse mai, detto in maniera assai poco democratica, tanto che l’ipotesi di un epilogo più o meno imminente ci rende terribilmente inquieti. Il motivo, parafrasando il compianto David Foster Wallace, la cui opera letteraria dedicata al tennis dovrebbe essere di pubblico dominio, è che di esperienza religiosa trattasi, senza blasfemia. Un komm jetzt urlato al cielo, una frustata liquida a spolverare la riga, uno slice maledetto che spacca in due le certezze di Euclide – i momenti Federer, insomma – alzano l’asticella del gioco su livelli non percorribili da altri. Tennis senza stereotipi, che sbeffeggia la noia contemporanea e unisce in matrimonio tradizione e modernità. È l’imprevedibilità al potere, golpe stilistico e sale della vita.

Federer, per chi non lo sapesse, è stato prima un giovane e turbolento tennista, con l’ingiuria facile e persino l’arroganza nei modi. Pare uno scherzo. Per poi evolvere, abbinando le doti elargite con generosità da madre natura al lavoro quotidiano su fisico e psiche insieme, a unità di misura del talento applicato alla racchetta. Roger, in altri termini, sta al tennis come il metro sta alle lunghezze e il chilo alle masse. Termine di paragone tecnico e comportamentale per le generazioni del domani che si accingono a fare di una disciplina meravigliosa in tutta la sua feroce complessità una professione. Un esempio, ciò che più conta anche per un cannibale pluridecorato, dall’esistenza agiata ma sempre attento a quel che gli gravita intorno, specie se meno fortunato.

Non serve aggiungere altro, da Betlemme è davvero tutto, lacrime di commozione  comprese.

Teo Parini

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