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I campioni hanno due cuori- Miriam Sylla, la Perla Nera (di Teo Parini)

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Attenzione: questo articolo fa parte dell'archivio di Ticino Notizie.

Potrebbe contenere informazioni obsolete o visioni da contestualizzare rispetto alla data di pubblicazione.

 

Sono nata dove la pioggia porta ancora il profumo dell’ebano 

Una terra là dove il cemento ancora non strangola il sole 

E nei miei occhi splendeva la luna, mi chiamavano la Perla Nera

 

Sabato scorso le ragazze azzurre del volley hanno disputato, perdendo sul filo di lana, la finale della rassegna mondiale giapponese che è valsa al nostro movimento una medaglia d’argento di inestimabile valore. Tanto di cappello. A vincere, per dovere di cronaca, è stata la Serbia della stella Tijana Boskovic, un successo che ha premiato la compagine probabilmente più completa del lotto, non di certo una sorpresa.

Come spesso accade nello sport, la differenza abissale tra vittoria e sconfitta passa per una manciata di punti e qualche piccolo frangente fortunato: e se Miriam Sylla avesse messo a terra la palla, facile per lei, del 13 pari nel tie-break decisivo forse ora saremmo qui a raccontare un epilogo differente. Ma tant’è, non è con i se che si scrive la storia (sportiva); storia che, in ogni caso, appartiene di diritto a questo gruppo di giovanissime atlete, vero orgoglio di un paese dalla modesta cultura sportiva che dovrebbe quantomeno sforzarsi di meritarsele. Invece succede che, tanto per fare un esempio, il quotidiano sportivo per antonomasia, all’indomani della finale che ha francobollato alla tv più di sei milioni di spettatori, non abbia saputo far di meglio che relegare la notizia intorno alla quarantesima pagina, solo al termine della consueta rassegna calcistica, per giunta in una giornata scevra di risultati da commentare. Emblematico. Pallavolo, mica curling con rispetto parlando, una disciplina che si colloca sul secondo gradino del podio per numero di tesserati in Italia ma che finisce anch’essa per essere fagocitata dal troppo spesso risibile mondo del pallone, tra gossip e beghe da cortile.

Fortuna vuole che a riconciliare gli aficionados con l’essenza stessa dello sport quale palestra di vita ci siano le storie mai banali che quest’ultimo è sempre in grado di raccontare. Come questa.

Il giovane Abdoulaye Sylla, lasciata la Costa d’Avorio in cerca di un futuro migliore e respinto dalle condizioni disagevoli incontrate durante la permanenza a Bergamo, ripara su consiglio di un amico a Palermo. Dal nord al sud, quindi, mentre di solito accade il contrario. Almeno non soffrirai il freddo, gli disse. Invece nevica, una disdetta. Abdoulaye sta male e senza una meta vaga per la città isolana centellinando le energie, poche, rimaste in corpo. È “nonna” Maria ad accorgersi per prima di lui, accosta con l’auto e senza esitare ne raccoglie la storia. L’ivoriano migrante e in cerca di un lavoro viene così accolto dalla provvidenziale e risoluta signora: ad attenderlo, una casa, un lavoro come domestico e un futuro. Nell’Italia che avrà modo di chiudere i porti, vien quasi da sorridere. Turning point.

Salimata, in patria, gioca a pallamano. La ritrovata stabilità di Abdoulaye, suo marito, le consente di raggiungere la Sicilia. Nasce Miriam, in una famiglia allargata composta da mamma e papà con due nonni acquisiti un po’ per caso ma così speciali. Maria, appunto, e Paolo, il compagno, oggi quasi ottantenni e per anni titolari di un bar sull’angolo di Via Torino, un rifugio per la piccola Miriam, tra zabaione, biscotti e gelati.

Abdoulaye è un tipo caparbio, lo si era capito, di sole pulizie, pensa, sarà difficile crescere la figlia. Decide quindi di riprovare l’avventura al nord, destinazione Lecco questa volta. Olginate, per la precisione. Fa il solito freddo cane, una costante. Trovare un sostentamento, per sé e per la propria famiglia, è impresa ardua, pressoché disperata se, dopo mille traversie, arrivi pure da lontano e il colore della tua pelle non è quello dell’emisfero agiato di mondo. Ma il signor Sylla un impiego lo rimedia, e pure una casa. Piccola, spoglia, poche luci e tante candele che contrastano il buio, dove Miriam cresce in fretta. Anche grazie a Anna, babysitter per passione che si prende cura di lei mentre mamma e papà lavorano fino a tardi. A scuola, in compenso, non vuole proprio saperne di stare, la matematica è un incubo e fortuna che almeno c’è la ginnastica. E la danza classica, attività che adora. Cosa che non si può certo dire della pallavolo, ambiente nel quale Miriam finì quasi per sbaglio: uno schifo, per usare le sue stesse parole. Si sbagliava, lo avrebbe capito da lì a poco. Perché l’incontro le cambierà la vita e, di rimando, lei alzerà l’asticella della nostra pallavolo. Una manna.

Miriam Sylla ha una fortuna enorme e un merito altrettanto grande. Madre natura le ha regalato in dote un talento purissimo, da predestinata, tuttavia senza l’abnegazione certosina di chi è già campione dentro ben prima di diventarlo a nulla sarebbe servito. Aiutati che il ciel t’aiuta, recita infatti l’antico adagio. Uno più uno, il resto è storia. Recente e luminosa. Greta per le prime schiacciate, Olginate, Ornago. Poi Villa Cortese, dove si comincia a fare sul serio, e la chiamata di Bergamo, a chiudere un cerchio aperto anni addietro dal babbo proprio nella città dei Mille. Scherzi di un destino che a volte toglie e a volte dona. Quest’anno, infine, l’approdo a Conegliano, i campioni d’Italia in carica, acme del nostro volley. In mezzo tanta nazionale e la consacrazione agli ordini di coach Mazzanti, uno che vale tanto oro quanto pesa e che meriterebbe un capitolo a sé.

Oggi Miriam, che di anni ne ha appena ventitré, è una stella assoluta del volley con un futuro radioso all’orizzonte e ampi margini di miglioramento. Professione schiacciatrice – per nomina la migliore nel suo ruolo agli ultimi mondiali – è una ragazza felice e serena con le spalle larghe e il cuore grande di chi ha sconfitto un’infanzia tribolata senza mollare mai un centimetro. Papà Abdoulaye, quando scelse di lasciare la terra natia, aveva un sogno semplice, quello di ciascuno di noi: un’esistenza dignitosa in un mondo sovente iniquo. È andato oltre, ci ha regalato una campionessa e un insegnamento da tatuare in stampatello sulla pelle. Sarebbe quindi opportuno dimostrare di aver imparato la lezione, anche se l’attualità, di una società troppo spesso intrinsecamente discriminatoria, farebbe presupporre il contrario. In ogni caso, a tutti i protagonisti di questa bella vicenda umana e di sport, piccolo scorcio di un’Italia che una volta tanto ci inorgoglisce, va il nostro ringraziamento.

Chapeau Abdoulaye, ce l’hai fatta. Punto e incontro.

Teo Parini

 

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