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I campioni hanno due cuori- Il sontuoso Pinot di Lombardia, come se fosse Borgogna.. Di Teo Parini

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C’è un inizio e una fine in tutto. Nel ciclismo, con cadenza annuale, si apre la stagione con la Milano-Sanremo e si chiudono i battenti con il Giro di Lombardia. Da Monumento a Monumento, quindi, come si è soliti definire le cinque corse in linea di maggior prestigio del firmamento internazionale. Due – la prima e l’ultima, per l’appunto – si disputano in Italia e per una volta c’è molto di cui essere orgogliosi, come in tutte le circostanze nelle quali si è protagonisti di una ricca pagina di storia. Classicissima di primavera e Classica delle foglie morte sono manifestazioni che valgono da sole una carriera, profondamente diverse nella struttura orografica ma identiche nel peso specifico. Nel gioco del tennis, tanto per rendere l’idea, succede che un giocatore che vince il torneo di Wimbledon, i Championships non a caso, sarà citato e ricordato in eterno. Un titolo tatuato sulla pelle, distintivo inequivocabile di appartenenza a un club esclusivo. Una corsa ciclistica Monumento sortisce più o meno lo stesso effetto benefico: è per sempre, come i diamanti.

Se prima di sabato Thibaut Pinot era un ottimo corridore con licenza di fare spettacolo, qualifica peraltro ambita, oggi il transalpino è il Campione del Lombardia, tutt’altra musica. Una laurea elargita in primis dalla strada che trasuda leggenda, poi dal sempre esigente popolo del ciclismo e infine dal blasone degli avversari sconfitti. Lode sia, senza indugi.

 

L’edizione numero 112 del Giro di Lombardia con partenza da Bergamo, arrivo a Como e consueto scollinamento sul Ghisallo, per le stranezze di un meteo più primaverile che autunnale, è andata dunque appannaggio del ventottenne francese di Mélisey, piccolo agglomerato urbano della Borgogna-Franca Contea. Vittoria a coronamento di una settimana magica con il secondo posto nella Tre Valli Varesine, la vittoria nella Milano-Torino e, ciò che più conta, il sigillo in un Lombardia dall’intensità ai limiti della commozione. Pinot, in una condizione fisica e mentale straripante, non solo ha vinto con agio ma lo ha fatto nel modo che fa sobbalzare la gente dal divano, un cocktail di forza, coraggio e doverosa arroganza applicata alla fatica. Chapeau.

 

Il muro di Sormano, per chi non lo conoscesse, è l’anticamera dell’inferno. Sono due chilometri scarsi di ascesa micidiale dove le pendenze del nastro d’asfalto obbligano i più forti a dotarsi di rapporti da rampichino e gli altri a mettere piede a terra, tutti indistintamente con una gestualità da antichi pionieri. La corsa esplode qui, quando un Nibali per l’occasione più cuore che gambe rompe gli indugi e con una progressione violenta ma non risolutiva convoca i migliori di giornata al tavolo dei pretendenti. Pinot si avventa sul siciliano, non aspettava altro, con lui Roglic, caparbio, e Bernal, uno che si farà. Bardet e Valverde, favoriti della vigilia ma con la spia della riserva accesa, gettano la spugna anzitempo e a giocarsi la corsa saranno dunque i quattro di testa. Sul Civiglio, l’ascesa successiva, è spettacolo vero che riconcilia con uno sport meraviglioso. Pinot, con gli occhi iniettati di sangue, assesta due scatti di quelli che fanno male ai quali Nibali risponde con tutto il mestiere di cui è dotato, cioè tantissimo. I due campioni rimasti soli si studiano, si punzecchiano e si temono pure, ma non lo danno a vedere. Un duello da vecchio west. Il terzo affondo, però, è un montante al mento del siciliano di quelli che spengono la luce: knock out. Vincenzo, in un’immagine di una bellezza senza tempo in tutta la sua drammaticità, reclina il capo in segno di resa e Pinot vola via in beata solitudine con una pedalata a ogni metro più efficace. Lo rivedranno solo al traguardo. In lacrime, per la gioia più grande della sua vita sportiva. Erano più di vent’anni che un ciclista d’oltralpe non andava a bersaglio nel cosiddetto mondiale d’autunno, quando fu un grande Jalabert a mettere la ruota davanti a tutti. Altri tempi.

 

Pinot è francese atipico e forse per questo trova un discreto gradimento qui in Italia. Affetto ricambiato con gli interessi perché il suo feeling con il Bel paese non è certo un mistero. Pinot, considerato il campanilismo smisurato dei suoi connazionali sembrerebbe una bufala che non è, al Tour de France preferisce di gran lunga il Giro d’Italia, dove fu splendido quarto nel 2017 e decisamente meno fortunato quest’anno, con la crisi nera verso Cervinia che lo ha estromesso dai giochi. Più di una volta, infatti, ha avuto modo di manifestare il suo amore per la corsa rosa, per i paesaggi mozzafiato, per le partenze dalle piccole piazze e gli arrivi nei centri storici sempre diversi, parafrasando le sue stesse parole. Un romantico delle due ruote. Senza dimenticare la nostra tavola che Thibaut dimostra di non disdegnare affatto, altro che Nouvelle cuisine.

(Photo credit  ANDER GILLENEA/AFP/Getty Images)

 

Un metro e ottanta per poco più di sessanta chili di peso, Pinot, eccellente scalatore di professione, non ha nel bagaglio tecnico una dote che lo collochi sopra a tutti gli altri ma si dimostra competitivo e costante in diversi frangenti di gara. Non è poco, in un ciclismo che preparazione e tecnologia spinta hanno livellato verso l’alto e dove una manciata di secondi trasforma inesorabilmente il paradiso in un inferno. Se lo scatto in salita, comunque notevole, non è quello di Contador e la progressione di Froome effettivamente è tutta un’altra cosa, Pinot sopperisce alle lacune con un surplus di coraggio d’antan che colleghi talvolta maggiormente dotati dimostrano di non possedere. Un predestinato – fu terzo, e primo tra i giovani, nell’edizione 2014 del Tour ad appena ventiquattro anni – con un fardello sulle spalle grosso come quella Francia che ormai da decenni aspetta con impazienza di tornare a primeggiare nella Grand Boucle, la corsa di casa. La sensazione è che il 2018 possa rappresentare l’anno della svolta decisiva per un corridore a cui, almeno fino a ieri l’altro, è sempre mancato un centesimo per fare una lira, nonostante il talento. Prima della settimana d’oro di cui sopra, Pinot aveva comunque già lasciato un segno tangibile vincendo la classifica finale del Tour of the Alps e, soprattutto, due delle tappe regine della Vuelta, splendida in particolare quella con arrivo in salita al Lagos de Covadonga, poi chiusa in una più che onorevole sesta piazza. Forse la molla è davvero scattata. Manna dal cielo, di cavalieri erranti e cuori impavidi se ne sente sempre la mancanza e il francese che adora l’Italia ha le stimmate per recitare la parte, indipendentemente da quanto sarà in grado di rimpinguare la bacheca. Pinot, al di là di tutto, è sinonimo di fantasia, quanto basta per assicurarsi l’affetto dei tifosi, sui generis al punto da anteporre sovente lo spettacolo all’ordine di arrivo. Singolarità di uno sport, in questo, assai poco convenzionale.

 

Su questo Thibaut, forte di una consapevolezza tutta nuova guadagnata sull’asfalto, ci possiamo sbilanciare. Nel 2019 chi vorrà fare la differenza quando la strada punta verso il cielo dovrà fare i conti con lui. Del resto, come diceva Gianni Brera, solo chi non fa pronostici non può sbagliare. Appuntamento dunque in primavera.

Teo Parini

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