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I campioni hanno due cuori. Alan Marangoni, il futuro non è (ancora) scritto- di Teo Parini

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 Non è mai troppo tardi, parafrasando il Professor Manzi, volto noto di una televisione monocromatica che non c’è più. È quello che ci piace pensare possa essersi ripetuto Alan Marangoni da Lugo, Romagna, terra natale di Francesco Baracca e di infaticabili pedalatori, prima di apporre ancora una volta il numerino adesivo sulla schiena. Un rituale vecchio come il ciclismo stesso che è sinonimo d’agone, replicato pedissequamente dal giovanotto estense per undici lunghi anni e più di settecento volte, come conseguenza diretta dell’aver trasformato una passione viscerale in un mestiere. Maestro nell’arte del gregariato, quel sottoinsieme invisibile, epico ma anche un po’ crudele del ciclismo, Alan, trentaquattro primavere alle spalle di cui venticinque spese in sella, la scorsa domenica ha preso parte all’ultima corsa della sua carriera.

Dall’altra parte del mondo, sull’isola di Okinawa in Giappone – quella tristemente celebre per l’omonimo assalto anfibio del secondo conflitto mondiale – che non sarà la Francia della grandeur, dei platani e del porfido arroventato dal sole di luglio ma in questo frangente conta davvero poco.

Nulla di così straordinario in tutto ciò, avversari inclusi per amor di verità, se non fosse che l’ultimo vigoroso scatto sui pedali, di un ragazzo che di anonimato e fatica ne ha fatta una ragione di vita, gli è valso in premio il primo e unico successo da professionista. Quasi fuori tempo massimo, quando si dice il destino. Dopo essersi messo al servizio dei propri capitani per un chilometraggio complessivo che è l’equivalente di tre volte la circonferenza terrestre, Marangoni si è dunque concesso con merito il sospirato quarto d’ora di notorietà di warholiana memoria, tagliando il traguardo in solitaria e a braccia alzate nel giorno che non avrebbe più ammesso un domani. Una sistemata alla maglia a favore di telecamera, un respiro che riempie i polmoni, la mente che ripercorre uno a uno i sacrifici di un’esistenza intera, il frequenzimetro che registra una vivacità cardiaca mai esplorata prima. Poi la gioia, irrefrenabile e liberatoria, che tanto fa pensare a un risarcimento quanto mai doveroso per l’abnegazione profusa negli anni senza mai alzare il piede dall’acceleratore, con tanti oneri e pochi onori.

Se nasci gregario nello sport del pedale hai insita una missione che mal si concilia con l’ambizione personale: vincere, pertanto, significa, in senso lato, fare vincere. Gli altri, quelli con la tua stessa casacca e un surplus di talento da spendere. Viene da sé che le occasioni per lasciare il segno, ammesso ce ne siano, sono ridotte ai minimi termini e il riconoscimento sportivo all’accantonamento di sé in favore di una nobile ragion di squadra sta nella considerazione incontrovertibile per la quale dietro un grande campione c’è sempre un grande gregario. Marangoni, in un passato nemmeno troppo remoto al fianco di fuoriclasse assoluti come Basso, Nibali e Sagan, un vanto, l’appuntamento con la storia lo aveva solo sfiorato in un’altra circostanza che sembrava cucita su misura per lui da Ananke, dea di un fato, col senno di poi, più beffardo che benevolo.

Correva l’anno 2015, primavera inoltrata, e il Giro d’Italia faceva tappa a Forlì che per Alan significa giocare in casa e la ghiotta occasione di ben figurare davanti agli occhi dei suoi tifosi. È proprio l’enfant du pays che secondo un copione non scritto anima la corsa, promuovendo, insieme a pochi compagni di avventura, una fuga lunga duecento chilometri, di quelle che mettono un pizzico di sale nelle giornate transitorie della manifestazione rosa. Marangoni, probabilmente conscio delle poche chance di aggiudicarsi la volata a ranghi ristretti, a meno di duemila metri dal traguardo schizza fuori dal plotoncino, pancia a terra, e fa il vuoto alle sue spalle, al punto che per la vittoria di giornata sembra ormai cosa fatta. Malaguti, ironia della sorte amico e compagno di tanti allenamenti, con le ultime energie rimaste in corpo ricuce lo strappo portandosi appresso Boem, un marpione dall’olfatto a quanto pare sviluppato, che tra i due litiganti si aggiudica con scaltrezza la corsa. Una disdetta atroce per Marangoni che, per sua stessa ammissione, ancora gli echeggia nella mente ma che, grazie all’exploit di un’indimenticabile domenica giapponese, ha forse cominciato a fare meno male al cuore.

Un altro grande gregario del ciclismo italiano: il nostro Andrea Noè

Resiliente come chi dallo sport ha rimediato più pane duro che caviale, Alan, archiviato per quanto lecito il pomeriggio (quasi) rosa della potenziale consacrazione agonistica, è quindi tornato con rinnovato entusiasmo a indossare i panni a lui più congeniali del faticatore, verosimilmente senza immaginare che il futuro fatto di scarpette e calzoncini non fosse ancora scritto per intero. Per completare il puzzle mancava infatti il gol in zona Cesarini, un rigore calciato nel sette al novantesimo minuto. Il resto è l’attualità che abbiamo appena raccontato, quella di un Tour di Okinawa che per un gregario e carneade ai più, forgiato dalle tante battaglie, assume lo stesso sapore di un titolo mondiale. È la classe operaia che va in paradiso, parabola applicata allo sport degli ultimi che, per una volta, saranno i primi.

Dopo un’infinità di ore trascorse accovacciato sulla bicicletta scalciando le pedivelle il più forte possibile, il fatto che a essere i più entusiasmanti di tutta una carriera fossero proprio gli ultimi secondi, una manciata, rende assai credibile l’antico adagio secondo il quale un lieto fine sia sempre possibile. Rincuorante, per tutti i Marangoni del mondo.

Vivi ogni giorno come fosse l’ultimo, ebbe modo di dire Orazio alla fanciulla desiderosa di conoscere il proprio futuro. Alan Marangoni, romagnolo come Pantani, il suo idolo, l’ha preso in parola: la corsa sull’isola nipponica che ha visto nascere il karate era davvero l’ultima e come tale ha scelto di interpretarla. Finendo per vincere, come nelle favole.

Teo Parini

 

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