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I campioni hanno due cuori- Addio Agnieszka, avresti sedotto pure l’Oltretomba (di Teo Parini)

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I problemi della vita sono altri, tuttavia la notizia del ritiro di Agnieszka Radwanska – risale allo scorso mercoledì l’ufficialità – è una parentesi triste per chi, di quel tennis che con la dipartita di Aga chiude mestamente i battenti, è stato un ammiratore. Ha detto basta con racchette e palline perché il fisico di cristallo, eccezione gentile in un mondo di corazzieri, ha smesso di rispondere a dovere, costringendola a barattare l’energia vitale di cui si nutre un’atleta con dolori atroci. Utopistico pensare di rimanere competitivi ai livelli di eccellenza se il primo nemico, teoricamente un alleato, si annida in casa propria, anche se nessuna delle avversarie del circus può contare su una forma di talento nemmeno lontanamente paragonabile. Un surplus di fisicità, infatti, è spesso condizione sufficiente, oltre che ovviamente necessaria, per primeggiare in uno sport la cui secolare evoluzione ha spostato il baricentro del gioco dalla competenza tecnica alla componente atletica. Morale, nemmeno la manualità raffinata di Aga – la Maga, non per nulla – che governa l’attrezzo di grafite alla stregua di un pennello, ti mette al riparo nello sport del diavolo. Ma è luce.

 

Nata a Cracovia ventinove anni fa, nel mezzo di quello passato alla storia come l’Autunno delle Nazioni, forse un presagio, Radwanska, benché depositaria di un curriculum invidiabile, appartiene a quella schiera di giocatrici in perenne credito con la sorte. Per quel che vale il senno del poi, e in virtù di quanto profuso in due lustri abbondanti di professionismo, avrebbe infatti meritato più che una ventina di tornei del circuito maggiore, le Finals di Singapore, una seconda piazza quale best ranking raggiunto in carriera e una (sola) finale Slam, disputata e persa nel tempio di Wimbledon.

E proprio in Church Road, estate 2012, la vita sportiva di Aga avrebbe potuto, forse dovuto, prendere una piega diversa, la differenza abissale che passa tra una regina dei Championships e tutte le altre: sliding doors. Giunta all’atto conclusivo, a fermarne la corsa fu probabilmente la miglior Serena Williams di sempre, costretta a scomodare fino all’ultimo watt di potenza per venire a capo del labirinto tattico eretto con maestria euclidea dall’allora poco più che ventenne polacca. Standing ovation per Agnieszka, piatto d’argento per Serena: è il cinismo del tennis.

Fisico aggraziato e volutamente femminile, guai a chiederle di potenziare la muscolatura, se Radwanska tra il 2008 e il 2016, un’eternità per lo sport, ha stazionato senza soluzione di continuità tra le migliori dieci giocatrici del pianeta, prendendo parte nel mentre a quarantasette prove del Grande Slam in fila, lo deve sostanzialmente a tre aspetti. Il talento, e lo abbiamo già detto; l’intelligenza tennistica, velocità e qualità del pensiero, quindi; il controllo assoluto del tempo. Aga, in relazione a quest’ultimo, ha compreso e, cosa assai più complessa, messo in pratica scientificamente il principio per il quale se non puoi colpire più forte allora colpisci prima. Una ladra di attimi senza precedenti. Piedi fulminei incollati alla linea di fondo, centro di gravità corporeo praticamente azzerato all’impatto con la palla in quel suo colpire genuflessa, un senso dell’anticipo illogico e timing, appunto, svizzero. Abracadabra, ovvero come mandare ai matti avversarie con una potenza nel motore doppia, se non tripla, impugnando matita e righello. Pitagorica.

Se per dirla alla Boniperti in maniera assai poco decoubertiniana, vincere è sempre l’unica cosa che conta, per gli appassionati sui generis che allo score antepongono sempre il palato, il ricordo corre invece svelto a Doha, anno 2016, torneo che, come volevasi dimostrare, Radwanska non vinse. Giunta nei quarti di finale in condivisione con la nostra Vinci, un orgoglio nazionale, diede vita a quella che con pochi timori di smentita passerà agli annali di una disciplina meravigliosa come la partita dal più alto quantitativo di talento in campo, perlomeno delle ultime due o tre decadi. Se Aga, ma anche Robertina, oggi mancano come l’aria a tutto il movimento è perché difficilmente in futuro, considerate le radicate condizioni al contorno che orientano il tennis nel secolo XXI, sarà possibile transitare su traiettorie stilistiche così raffinate. Osservando con tutta la rassegnazione del caso le virtuose della clava e del corri-e-tira che monopolizzano l’attualità di un gioco stereotipato e troppo spesso noioso, ci si rende conto senza indugio del privilegio di aver vissuto l’epopea sportiva di Agnieszka Radwanska; che sta al tennis come Savicevic, il Genio, sta al football e Dominguez al mondo del rugby. Abbacinanti uomini di sport il cui ricordo intramontabile si lega indissolubilmente al “come” più che al “quanto”. La qualità al potere.

Con i suoi trucchi da illusionista, di volo e di rimbalzo, Aga ha ammaliato le platee per anni. Anche nelle ultime due stagioni, quelle segnate dagli infortuni via via più pressanti, quando il sospetto che nulla sarebbe più stato come prima cominciava a farsi concreto.

“Per giocare le partite che contano occorre spingere il proprio corpo ai limiti, e sfortunatamente oggi non sono in grado di farlo”, sono le parole messe per iscritto dalla Radwanska nel difficile momento del commiato e in cuor nostro lo sapevamo già. Una cosa però è certa. Aga, come tutte le persone pregne di qualità uniche, lontana dai playground che ne hanno caratterizzato questo suo primo fortunato segmento di vita sarà comunque in grado di emergere. Magari, è anche un auspicio, mettendosi a disposizione delle nuove leve, nell’intento di tramandare ai posteri una dottrina che, se solo l’Unesco si occupasse di vicende tennistiche, sarebbe fin da subito patrimonio dell’umanità.

Buona fortuna, piccola Maga. E grazie di tutto.

Teo Parini

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