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Gianni Mura, tra Grand Boucle e tristezze strapaesane. Addio al migliore dei Senzabrera- di Teo Parini

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Si può raccontare, anche bene, un Tour de France, lo fanno in molti. Oppure si può prendere l’evento sportivo per distacco più popolare al mondo e farne un’osteria intima, alla mano come si è soliti dire, una tovaglia a quadri, una michetta e un fiasco di vino, dove ciclismo, ovvero sublimazione della sofferenza, e epica sono momenti indistinguibili, financo sinonimi, da condividere raccolti tra gli affetti più cari. E questo miracolo di astrazione è prerogativa di pochi maestri di cerimonia, l’élite degli chansonnier, scrittori dunque ingegneri dell’animo umano che si contano sulla punta delle dita. Il più bravo dei giorni nostri, senza timore di smentita, il Vate imperituro per ogni uomo affacciatosi in punta di piedi all’universo del giornalismo ci ha appena lasciato. Gianni Mura, e sia per sempre maledetto questo primo giorno di infetta primavera.

Tempi cupi. Niente Grand Boucle da analizzare tra le caleidoscopiche pieghe del giallo di una maglia che trasuda leggenda; niente scorribande enogastronomiche per soddisfare il palato esigente ma gentile; niente sfide di petanque all’ombra dei platani mentre il maestrale sferza il sud della Francia baciato dal sole; niente Giro delle Fiandre, come non bastasse, corsa mai soppressa nemmeno in tempo di guerra; niente volate a sessanta all’ora né scatti in salita; niente ammiraglie che sbuffano inseguendo un tornante; niente fogli di giornale che avvolgono lo stomaco e niente polvere d’asfalto che sale, democraticamente, nel respiro di chi corre e chi insegue. Niente di niente. Tutto fermo, congelato, in uno spaccato di mondo reso oltremodo abbacchiato e surreale dalla tracotanza dei suoi occupanti più che da un virus. Troppo da sopportare, almeno così ci piace immaginare in questo momento triste, per un buono, uno puro, uno genuino proprio come lo vedi. Gianni, allievo prediletto dell’altro Gianni – Brera ovviamente, perché se gli opposti si respingono le virtù per certo avvicinano – deve così essersi domandato “che ci resto a fare qui?”, prima di allontanarsi da un pianeta che con la sua arte descrittiva distinguibile tra mille imitazioni, alla stregua di un ingranaggio leonardesco che il tempo non può inceppare, ha contribuito a essere migliore. Aveva 74 anni, lascia la moglie Paola e un esercito di epigoni da oggi un po’ più soli, chiamati a reggersi sulle proprie gambe nell’esercizio di una professione ambiziosa, difficile, bistrattata ma essenziale. Che la Terra dello Champagne e del buen vivir, per dirla alla maniera latinoamericana, gli sia dunque lieve.
La fiamma rossa, a beneficio di chi non lo sapesse, è quella bandierina di stoffa ritagliata sul perimetro di un triangolo equilatero che certifica l’inizio dell’ultimo chilometro di una corsa ciclistica, passerella di gloria o interminabile calvario. Dipende. Gianni Mura, quale inviato prima per conto della Gazzetta dello Sport e poi di Repubblica, di storie legate ai mille metri finali che compendiano in un amen ore di sudore in sella e rapporti da cambiare, assecondando pendenze ora favorevoli e ora maligne, ne ha raccontate un’infinità, il suo testamento.
Il Tour de France, evento indissolubilmente incastonato nella penna del milanese di nascita, abbiamo così imparato ad apprezzarlo, non senza un pizzico di campanilistica invidia tricolore, per quello che è, un universo avvolgente, un pezzo di noi e di ciò che ci completa. Cronaca sportiva, certamente, ma anche paesaggi, ricordi e emozioni, spesso la stessa identica cosa. Mura, tra una sigaretta promossa da vizio a compagna di avventura e una mano di briscola ove pare fosse giocatore formidabile, ci ha accompagnato per mano in un viaggio lungo qualche decade, virtuale e tangibile insieme, che ci ha visto crescere. Pendendo da labbra quali impareggiabili cassa di risonanza di pensieri mai scontati, ci siamo arricchiti a tutto tondo percorrendo la via della lavanda che odora di Provenza fino a sfociare nel palcoscenico naturale pirenaico, orgia di tonalità pastello dove il verde smeraldo dei boschi va a mutare sé stesso nel cobalto dell’oceano. Abbiamo inoltre goduto della vastità silenziosa della Normandia e della magia austera della Savoia, tra aquile e ghiacci perenni. Su e giù, una, dieci, cento volte, lungo un sentiero chiuso a ricciolo come tradizione impone, a Parigi lo chiamano boucle, che esplora culture differenti, incontra personaggi, mesce del buon vino, stuzzica fantasie culinarie e fa risuonare canzoni d’autore. Perché ciclismo è vita e viceversa, con Mura, amalgama di ruvido e velluto uniti dal sacramento del matrimonio, elevato a Maestro e Cantore di entrambi.
Tornando a Brera, e chissà quanto avranno presto da raccontarsi in privato, fu proprio Gianni a scriverne il doloroso ricordo l’indomani la tragica scomparsa. Trent’anni fa, ma pare ieri. “Dicevi che non si deve scrivere barocco – esordì Mura riferendosi al Gioann nel pezzo di commiato che chiunque vorrebbe saper redigere – anche se un po’ è inevitabile, nello sport: il muscolo si gonfia come il lessico. Come il cuore.” E ancora: “Anche la morte può aprire autostrade di retorica, ma questo oggi ti devo.” E se oggi siamo noi a percorrere la strada non semplice della retorica è perché, con la ruota del tempo che inesorabilmente gira, è ciò che dobbiamo a lui senza la pretesa di essere parte di un passaggio di consegne.
C’è un motto tanto caro ai cugini francesi, forse un tantino spocchioso ma foriero di una verità probabilmente inoppugnabile. Era solito ripeterlo con ossessione uno degli ultimi patron del Tour, perché, proprio del grande giro d’oltralpe, è la summa. Recita più o meno così: “Non sono i campioni a fare grande il Tour ma il Tour a fare degli atleti i campioni”. Parafrasando la chiosa in un’ottica romantica il giusto, possiamo concludere dicendo che se il mondo del pedale li celebra come fuoriclasse è anche perché i vari Hinault, Fignon, Lemond, Indurain, Contador e Nibali, passando per Pantani che ha amato visceralmente coniando ad hoc l’espressione planetaria di Pantadattilo e per il povero Casartelli, hanno avuto l’onore di essere tributati dall’estro narrativo di Gianni Mura la cui prosa sta al giornalismo come il piede sinistro sta a Diego Maradona, quindi un pennello.
Un piccolo bonario rimprovero. Chi si è perso per strada capolavori assoluti quali “Giallo su giallo” e “La fiamma rossa” ha colpevolmente sprecato parte dei suoi anni migliori, tuttavia non è mai troppo tardi per colmare la lacuna. 
A presto, Gianni, e riguardati a tavola: sai, gli anni passano per tutti..
Teo Parini

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