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Dall'archivio:

Gianni Mura è corso a bere Barbaresco con Gianni Brera. Viva Gianni Mura

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E’ morto Gianni Mura, unico vero erede del maestro della Zolla Gioanbrerafucarlo. Se non capisci Brera, non avresti mai potuto capire Mura.

Ecco quindi il pezzo scritto su Repubblica da Gianni Mura, il giorno della morte di Gianni Brera. Uscì sull’edizione del 20 dicembre 1992.

Gianni Mura starà stappando Barbaresco assieme al Maestro. Che dire.. prosit!

TI sia lieve la terra, Giovanni. Comincio come avresti concluso tu se fossi morto io, come hai concluso tante volte i coccodrilli.

Sono pezzi che toccano ai più vecchi, o a quelli che hanno più memoria, e del calcio di Repubblica il più vecchio adesso sono io. E comincio a capire il peso che hanno i coccodrilli, e mi viene in mente di quando tu mi hai raccontato della morte di Consolini, il discobolo. L’avevi saputo che stavi in America, e ti eri messo a piangere e a imprecare, da solo, nel parcheggio di un motel di Dallas, o forse era Chicago.

Adesso qui a Malta è quasi uguale, solo che c’è il mare oltre il parcheggio, e molto vento, Giovanni. Ti chiamo così perché l’ultima volta che ci siamo visti, la settimana scorsa, hai scherzato sui nostri nomi, sul Gianni piccolo-borghese imposto da zie, sorelle o madri. Mi hai anche regalato due pacchetti di Super col filtro, la solita generosità, in un momento di astinenza forzata. Qui ti piangono e ti rimpiangono, li conosci tutti e tutti ti conoscevano. E molti dicono la cosa più ovvia, che se venivi qui non eri su quella strada tra Codogno e Casalpusterlengo.

Dove finisce il territorio dei gallo-liguri e inizia quello dei celti, Giovanni? Qui sappiamo così poco e ognuno si taglia coi suoi ricordi. Io ne ho tanti. Per cominciare, ti devo la scelta del lavoro, se tu non avessi scritto come scrivevi, sul “Giorno”, oggi sarei un insegnante di lettere o di francese, in qualche scuola lombarda. E scrivevi come vivevi, da persona piena di umori e di amori, con una cultura larga e profonda che andava dalla pesca degli storioni all’uso del verso alessandrino. E le invenzioni, Giovanni, i neologismi. Ne hai inventate di parole.

Ti avevo chiesto un appuntamento nel ‘ 65, in “Gazzetta” ero il ragazzo di bottega, per capire qualcosa di questo mestiere, degli strumenti da usare. E venendo da te sentivo di non tradire Gualtiero Zanetti, il mio direttore: eravate amici, sulla stessa linea ideologica, vi univa Nereo Rocco. “Venga sul lago verso le 11, poi parliamo”. Mi aveva colpito l’uso del lei. E, poi, il fatto che appena arrivato tu mi chiedesti di aiutarti a raccogliere le uova, facendo attenzione a un’oca feroce ribattezzata De Gaulle.

Questo Brera inventa anche sulle oche, pensavo, e in verità l’oca somigliava molto al generale, e intanto stavo attento a non scivolare sul pesticciato del pollaio. E per un pomeriggio ero stato ad ascoltarti spiegare tutto, anche cose non richieste, anche la tua nascita settembrina col fatto che nella Bassa pavese le donne non potevano uscire a lavarsi, d’ inverno, per il freddo, post coitum. E la laurea in scienze politiche (figlio di un sarto povero, ma tutti i figli mandati all’università, perché il pezzo di carta avrebbe dato pezzi di pane), e i paracadutisti, e la Resistenza senza sparare un colpo, e il pallone preso a calci con la maglia dei Boys a Milano, con Cina Bonizzoni allenatore.

Lo sport. Certo sapevo che eri stato direttore della “Gazzetta”, a trent’anni, e te ne eri andato sbattendo la porta per una bega amministrativa. Non sapevo, me lo avresti detto tu, che lo sport aveva due tipi di cantori: quelli
che definivi i professori, gli epigoni del Vate Gabriele, digiuni di tecnica ma ben provvisti di parole alate, e gli scribi, i cronisti, quelli che seguivano lo sport da vicino, con qualche nozione ma senza lingua, senza le parole adeguate. E tu con coscienza e scrupolo artigianale (ma io non dimentico tutti i libri che hai in casa) avevi inventato una lingua viva, piena di venature, di rimandi, come uno che aveva letto Runyon ma anche Folengo.

Eri nato con l’atletica e il ciclismo, sapevi raccontare gli uomini e le strade. E’ sempre più dura, Giovanni, con questo pezzo spezzato dalle telefonate e dai colleghi che mi chiedono un ricordo di te. Uno della Rai mi ha presentato come tuo erede e so che ne era convinto, ma io non voglio. Mi è venuto in mente e mi sono commosso, ma con un microfono sotto il naso non si può piangere, di quando tu hai detto a tua moglie Rina, guardandomi: ma hai visto il profilo del naso di Giovannino, la barba? Potrebbe essere nostro figlio, sputato. Sì, aveva detto la Rina, che ha occhi di un azzurro incredibile.

E adesso io vorrei essere vicino a lei, non qui. Mentre sta suonando una banda. Io non sarò il tuo erede, Giovanni. Siamo onesti, come te non c’è stato nessuno e non ci sarà più nessuno. Mica solo per lo sport. Se c’è un libro di gastronomia da salvare, è “La pacciada”, che hai scritto tu con Luigi Veronelli. Che adesso starà bevendo in memoria tua. Se si vuol capire qualcosa di ciclismo, degli anni eroici del ciclismo, bisogna leggere “Addio bicicletta”, l’hai scritto tu un sacco di anni fa. E pochi letterati da Strega e da Campiello avrebbero descritto il paese di Coppi come hai fatto tu. Io non sarò il tuo erede, ma continuerò a portarti in giro, Giovanni. Lo facevo già prima, lo farò ancora. Lo facevamo in tanti. Anche venerdì sera, a tavola con gli altri di Repubblica, ci siamo chiesti se quel Cabernet Sauvignon maltese a te sarebbe piaciuto. No, ho deciso io, non ti sarebbe piaciuto.

E’ strano, ma negli ultimi tempi ci si vedeva poco, proprio adesso che lavoravamo nello stesso giornale. Ma era normale, se tu stavi a San Siro io andavo a Torino, se tu eri a Roma io a Parma, se io ero a Malta, tu fra Codogno e Casalpusterlengo. E adesso che sta partendo il pullman per lo stadio, in un sole assurdo. Non sappiamo nemmeno se c’era nebbia lì, a quell’ora, ma non importa. Ricordo di quanto avessi paura, in macchina, tu, e come strillavi appena si passavano i 120 in autostrada. Conosco anche quelli che sono morti con te, ci abbiamo mangiato assieme e giocato a carte, da Giuliano. Sei morto come avresti sperato, ammesso che si possa sperare di morire, il come se non il quando. Tu che giravi pieno di pilloline contro tutto, nel tuo leggendario borsello di pelle d’ippopotamo, hai evitato l’orrida vecchiezza, dicevi tu, l’infermità, il bussare insistente della signora dai denti verdi.

Sei morto come auguravi ai tuoi eroi sportivi, assunti in cielo su un carro di fuoco. Non sei morto di cuore né di fegato né di polmone, Giovanni, tu che fumavi cento sigarette al giorno e non parliamo di quello che hai bevuto, oppure parliamone, e parliamo del culo che ti sei fatto sgobbando fra le stanghe della Olivetti (il computer mai, avevi ragione tu, non fa rumore, ti cambia le parole già in testa) più di cinquant’ anni. Sei morto con gli amici, come avevi vissuto. Non è il maestro di giornalismo che ci manca, né il suscitatore di polemiche sempre affrontate a testa alta. Ci manca il compagno di strada e d’avventure, anche avventure intorno a un tavolo che era la rampa di lancio per sentirti raccontare delle storie, poteva essere Alarico o Girardengo, eri tu che le raccontavi, e chi ti poteva contestare la data della dieta di Worms? O la vera ricetta della zuppa alla pavese? Solo una volta ti ho beccato, su un vino di Giacomo Bologna, morto anche lui, fegato. Anche lui ricco d’avventure e di umanità. Passa il tempo e si fa la conta e i debiti coi morti sono i più difficili da pagare. Ne ho tanti, da oggi uno in più. Per esempio, se hai bisogno chiamami, non te lo sentirò più dire. Se mi ammalo farò come il cinghiale solengo, che si apparta e non vuole vedere più nessuno, dicevi. Ti è andata bene, è forse l’unica consolazione,
amico, maestro, pezzo di cuore che se ne va. Sei morto nella Bassa, vicino a dove sei nato. Non avrei mai voluto scriverne.

Dicevi che non si deve scrivere barocco, anche se un po’ è inevitabile, nello sport: il muscolo si gonfia come il lessico. Come il cuore, Giovanni, come il cuore. Anche la morte può aprire autostrade di retorica. Ma questo oggi ti devo: la coscienza che non si può essere avari, nella vita e nel mestiere, che bisogna spendersi, meglio dieci righe in più che dieci in meno, semmai qualcuno le taglierà. Meglio un’ora in più con gli amici che un’ora in meno. Meglio il fiotto che la goccia. Meglio il rosso che il bianco. Meglio la sincerità, anche quando può far male, che la reticenza o la bugia. E adesso basta, tiremm innanz, come ha detto uno della tua sponda. Quel po’ di strada che c’è ancora da fare la faremo insieme, tu non ti stancherai, neanche al Tour. E io se sentirò un peso al petto o un bruciore agli occhi darò la colpa alle sigarette, al vino, ai chilometri. Sto dettando dallo stadio
Tà Qali, gioanbrerafucarlo, siamo già partiti.

Gianni Mura
 

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