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Gianni Minà, il vento che non si può fermare- di Teo Parini

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In un periodo periodo storico che a definire nefasto si rischia di sbagliare per difetto, la scomparsa di un maestro del giornalismo come Gianni Minà, se non è un colpo del ko assestato al mento di un mestiere che è si possa tornare ad esserlo, poco ci manca. Tanto meraviglioso e che un giorno si spera possa tornare ad esserlo, poco ci manca.

Non è la consueta retorica del giorno dopo, Minà sta al giornalismo di qualità come i tanti giganti che ha saputo intervistare nell’arco di una carriera senza macchia stanno alle rispettive mansioni, fuori categoria.

Ancora qualche settimana fa, prima che una crisi cardiaca lo strappasse improvvisamente all’affetto della fetta preponderante di mondo che questa mattina si è risvegliata più sola, Gianni si prodigava affinché un archivio inesausto e rigorosamente cartaceo, il suo, potesse avere un seguito dopo la morte. Con quella che oggi si chiama operazione di crowdfunding, infatti, era intento a mettere in ordine migliaia di pagine di agenda – la sua cifra stilistica – zeppe di vita e di considerazioni, di luoghi e di storie, di riflessioni e di propositi, di disperazione, di gioia e di speranza. Un caleidoscopio di pensieri annotati a mano con cura affinché le tante voci ascoltate, sempre con rispetto e cordialità, potessero godere dell’immortalità. Perché giornalisti, gli ingegneri delle anime in un’azzeccata definizione, lo si è fino alla fine. “Per me – disse di recente – ciò ha significato la vita stessa, una passione che ho vissuto fino in fondo”.

A Gianni era difficile non volere bene. Una volta, riuscì nell’impresa di fare sedere allo stesso tavolo personaggi dal respiro planetario e di un certo ego come Muhammad Ali, Robert De Niro, Sergio Leone e Gabo Garcia Marquez. Maradona, che ha sempre definito il più grande calciatore di ogni epoca, lo venerava come un padre e Fidel Castro, con il quale ha condiviso l’amore viscerale per Cuba e la sua Rivoluzione, gli assicurò sedici ore di intervista tutte d’un fiato, così, per amicizia. Il ringraziamento per quanto Minà si è sempre speso pancia a terra per la causa dell’emancipazione dell’America Latina. La lista degli amici sarebbe lunghissima: Luis Sepúlveda fu per lui più che un fratello, come Pietro Mennea o la divina Mina.
A denigrare la sua opera, invece, erano i piccoli pennivendoli di regime, quelli supini ai desiderata dei potenti per i quali fungono da prezzolata cassa di risonanza, che detestavano il suo essere libero; come se l’imprescindibile desiderio di libertà, per sé e per gli altri intorno a lui, fosse un crimine. Non gli perdonavano, infatti, la rettitudine morale e una deontologia immacolata in un contesto inquinato, ciò a beneficio di chi ritiene che fare informazione significhi necessariamente chinare la testa. La scelta del lato della barricata, quello più scomodo, aveva sempre un prezzo salato da pagare. “Mi hanno sempre attratto persone capaci di andare controcorrente, anche a costo dell’isolamento, della solitudine”, confessò un giorno. Così l’establishment politicamente scorretto cercò, peraltro senza riuscirci, di relegarlo ai margini, dimenticando che non si può mai arrestare il vento. Del resto, questi biechi personaggi rispondono sempre a ordini superiori di palazzo: “La CIA – lo ricordava spesso – mi considerava un nemico”. Il solito trattamento discriminatorio riservato a chi sposa col cuore la causa di tutti i Sud del mondo.

Peli sulla lingua, Gianni, di certo non ne ha mai avuti, senza timore per le possibili conseguenze. Come nell’ormai lontano 1978, quando fu espulso dall’Argentina dei colonnelli durante i mondiali di calcio della vergogna per non aver risparmiato al capitano di vascello, tale Lacoste, la domanda deflagrante sui desaparecidos, mentre tutti i colleghi si voltavano dall’altra parte. Coraggio, oltre che integerrimo senso del dovere. Non basterebbero pagine e pagine per elencare il suo curriculum professionale. Premiato da Sandro Pertini quale miglior giornalista dell’anno, Minà, torinese ma di origini siciliane, ha diretto giornali, ideato trasmissioni televisive, creato format, testimoniato imprese, divulgato notizie, fatto informazione, raccontato storie, dato spazio a chi spazio non ne aveva mai avuto. Il tutto vissuto alla stregua di un privilegio quando, in realtà, i privilegiati eravamo noi, estasiati fruitori della sua professionalità.

Minà, in definitiva, è stato sostanzialmente tre cose. L’avversione per ogni forma di compromesso; l’inesauribile e assordante voce dei popoli, degli ultimi, dei dimenticati; la capacità di essere un pensatore raffinato senza mai perdere calore umano e preservando gelosamente la sua vena popolare. Quella che gli ha consentito di incarnare i sogni del novantanove per cento di mondo che mal sopporta le ingiustizie dei pochi sui molti, il trait d’union fra la coscienza e la parola. Successe anche che gli venne fatta questa domanda: “Perché non ti hanno più voluto in RAI?” E senza scomporsi più di tanto, Gianni rispose: “Perché chi dice qualcosa di diverso dal pensiero degli Stati Uniti rischia l’isolamento “. La forma più pura di intolleranza al bavaglio.

Pazienza, sentimento e umiltà, gli ingredienti fondamentali alla buona riuscita del suo lungo percorso. Capì, decisamente prima di altri tracciando la via, che un giornalista degno di questo nome ha il dovere di porsi nei confronti dell’interlocutore senza preconcetti, senza imporre la propria visione delle cose e, soprattutto, senza estirpare scampoli di intimità al fine di vendere una copia in più. Plastica quanto disattesa definizione della qualifica di divulgatore, in virtù della quale Minà verrà ricordato come pionieristico interprete. Per chiudere, il doveroso ringraziamento per averci insegnato che la ragione è sempre forza sussurrata. E la ragione può ancora spostare le montagne.

Fa’ buon viaggio, Gianni.

Teo Parini

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