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Francesco Cossiga e i Servizi Segreti (un’intervista di Piergiorgio Oddifreddi del 2002)

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(Tratto da www.pangeanews)

Se l’Italia è passata, alla fine del Novecento, dalla prima alla seconda Repubblica, lo deve anche a Francesco Cossiga. Il più giovane presidente della nostra storia, eletto plebiscitariamente nel 1985 a soli cinquantasette anni, si trasformò infatti nel 1990 nel ‘picconatore’’, dedicandosi a demolire la stessa Costituzione che aveva giurato di servire. Tutta la vita politica di colui che, per il suo americanismo e la sua durezza, venne chiamato “KoSSiga” è stata caratterizzata da polemiche e sospetti: le richieste di impeachment (da presidente del Consiglio e della Repubblica), le dimissioni (da ministro degli Interni, presidente della Repubblica e senatore a vita), le coperture di scandali ed episodi oscuri (De Lorenzo, Moro, Ustica, la P2, Gladio). Cossiga ha dichiarato una volta: “Come a qualcuno piacciono i fiori, a me piacciono le spie’”. Questa sua passione per i servizi segreti l’ha sempre reso un candidato naturale per vari incarichi politici: da fiduciario presidenziale di Segni tenne i rapporti con il Sifar, da sottosegretario alla Difesa appose i famosi ‘omissis’ all’indagine sulle deviazioni dello stesso Sifar, da ministro degli Interni istituì i corpi speciali dei Carabinieri (Gis) e della Polizia (Nocs), e da presidente della Repubblica prese le difese di Gladio. Da senatore a vita, infine, ha presentato varie proposte di legge per la riforma dei Servizi, raccolte in “Abecedario” (Rubbettino, 2002). È su questi temi che siamo andati a intervistarlo a casa sua a Roma il 4 novembre 2002.

Come è arrivato a interessarsi ai Servizi di informazione?

Io mi sono sempre occupato di queste cose, ne ho sempre avuto la curiosità. E poi me l’ha chiesto il mio partito, Moro in particolare. La Democrazia Cristiana, per motivi storico-ideologici, non ha mai avuto un grosso interesse per gli arcana imperia: per il potere sí, ma per l’informazione no, a causa della cultura cattolica, verso la quale io ho un atteggiamento di opposizione dialettica. In Italia non esiste un ambiente non militare che si occupi di questioni strategiche.

Non c’è niente di analogo alla Rand Corporation?

Poca roba. Esperti e studiosi di strategia, come Edward Luttwak in America, da noi non ci sono. Non si sa nemmeno, ad esempio, che la strategia appartiene alla logica.

In che senso, precisamente?

La strategia è l’arte del preordinare i mezzi ai fini, e del commisurare i fini ai mezzi: guai se uno si propone dei fini per cui non ha i mezzi, o usa mezzi sbagliati per i fini che si è proposto. La strategia è la scienza dei fini, come la tattica è quella dei mezzi. Da noi questo non c’è.

C’è però in matematica, nella teoria dei giochi. Lei se n’è mai interessato?

Sí, ho cercato di avvicinarmi, però non avevo la base teorica: mentre nelle cose pratiche uno può arraffare, lí entriamo in un campo inaccessibile. Una delle cose che mi sono fatto spiegare dai militari, e che mi hanno affascinato, è la ricerca operativa. Mi ha colpito il fatto che, a volte, per rendere un sistema più gestibile bisogna renderlo meno complesso: ad esempio, in certe situazioni può essere meglio diminuire il numero dei posti di distribuzione del rancio, invece di aumentarlo.

La ricerca operativa è sorta proprio per risolvere problemi di distribuzione delle risorse.

Esatto. È nata durante la Seconda Guerra Mondiale, e le prime applicazioni furono l’organizzazione dei convogli sull’Atlantico e, tragicamente, dei bombardamenti. Però quello che si è sviluppato nel campo militare, in realtà riguarda tutto: un buon stratega militare è anche un buon stratega economico. Cosí come l’intelligence, che ha avuto come prima applicazione il campo militare, poi è diventata soprattutto politica, industriale e finanziaria.

A proposito, come mai è arrivato a scrivere un libro sull’intelligence?

Quand’ero presidente della Repubblica, vollero tentare una riforma dei Servizi. Per dare solennità alla cosa fecero una riunione del Consiglio Superiore di Difesa, e io mi accorsi che molti suoi eminenti membri non sapevano nulla di questi argomenti. Cosí un sabato e una domenica ho scritto il libro per loro: quasi un dizionario terminologico, perché capissero almeno le parole. Poi capitò a pranzo da me l’ex-capo della CIA, William Colby, e allora io gli chiesi il favore di leggere e correggere. Lui lo fece, e mi diede anche un voto: nove e mezzo.

Quando l’aveva conosciuto?

Quand’era il giovane agente sottocapo della Stazione di Roma, e teneva i contatti con i partiti democratici. Perché la CIA, come d’altronde il KGB, è una cosa molto più complessa che solo un’agenzia di spionaggio: tant’è vero che da lí sono venuti uomini come Bush padre e Putin.

Nel suo libro lei distingue fra spionaggio e controspionaggio.

Lo spiegai una volta a Ken Follett. Per lo spionaggio occorre fantasia, coraggio fisico e un grosso senso di individualità: una spia dev’essere un solitario. Il controspionaggio invece è un gioco di ‘puzzle’: occorrono metodo e pazienza. Quando noi crediamo che uno che fa bene la spia faccia bene la controspia, prendiamo un abbaglio.

Dunque, separazione delle carriere.

Esatto. In Italia non esiste una cultura di intelligence, che è diretta soprattutto a conoscere: l’utilizzazione dell’informazione non è di sua competenza. Questa mentalità da noi non c’è, perché sul piccolo schermo o sui giornali si finisce non con l’intelligence, ma con le operazioni di polizia. E cosí si confondono due cose completamente diverse.

Nel libro lei propone anche una dicotomia tra legalità e legittimità, che è analoga alla distinzione in matematica fra dimostrabilità e verità.

Sí: la legittimità è ciò che attiene alla natura degli interessi costitutivi dello Stato, mentre la legalità riguarda soprattutto i fini. Non esiste servizio segreto che non sia illegale, ma l’illegalità del servizio è giustificata dalla sua conformità alla legittimità. E siccome l’amministrazione della giustizia è dominata dalla legalità, occorre che il rapporto tra intelligence e giustizia venga mediato dalla polizia. In altre parole, nessuna prova raccolta con i metodi di unconventional operations può essere usata senza ottenere un riscontro convenzionale dalla polizia.

Mentre, però, la legalità si può facilmente determinare in base alle leggi scritte, come si può valutare la legittimità?

È una scelta politica. In fondo vi è un’unica forma di nascita dello stato, ed è la rivoluzione: cioè, la scelta e l’affermazione di fatto di alcuni valori. La legittimità deve avere come base lo stesso consenso che sorregge lo stato. È quello che dicevano i romani: ex facto oritur ius.

Ma perché dovrebbe esserci un’unica legittimità, in uno stato?

Infatti in Italia ne sono esistite due, e per questo c’erano la Gladio Bianca e la Gladio Rossa.

Cosa sarebbe, la Gladio Rossa?

Un’organizzazione creata dal Partito Comunista Italiano, con l’aiuto del KGB, per salvare i capi comunisti in caso di colpo di stato o di invasione.

La Gladio Bianca però era ben altra cosa, no?

Anche lí ci si preoccupava anzitutto dell’esfiltrazione, alla quale si rivolgeva la maggior parte delle esercitazioni.

Con ‘esfiltrazione’ intende ‘rapimento’?

No! Intendo la messa in salvo di personalità politiche, perché era chiaro che i paesi del Patto di Varsavia avevano gli elenchi delle persone politicamente sensibili. E poi, naturalmente, c’era la creazione dei focolai per un’eventuale azione di resistenza armata, e soprattutto delle basi d’appoggio per le operazioni delle forze speciali.

Quando è stata creata Gladio?

Mi sembra nel 1954, con il nome ufficiale di “Stay behind”: io non sapevo nemmeno che si chiamasse Gladio. Agli inizi c’erano Regno Unito, Francia, Grecia, Paesi Bassi, Norvegia, Svezia e Svizzera. Poi è entrata la Germania, prima di noi. L’Italia non la volevano, perché era il paese più spaccato: per lo stesso motivo, gli americani e gli inglesi ritenevano che fosse meglio lasciarla fuori della NATO. Credevano che saremmo stati un peso, e che avremmo avuto una guerra civile.

E come ci entrammo?

Fu la grande operazione di De Gasperi. Poi ci accettarono anche in “Stay behind”, e ci fu il grosso problema se occorresse ratificare questi atti. Alla fine furono fatti degli accordi tecnici tra i vari servizi di informazione.

I socialisti sapevano dell’esistenza di Gladio, quando erano al governo con Nenni?

Sí.

E i comunisti?

Loro hanno sempre negato.

Come mai si venne a sapere della sua esistenza?

Perché la rivelò Andreotti.

Volevo dire, perché la rivelò?

Perché lui a queste cose non crede. Lui crede che la storia abbia un solo facitore: Dio. E su questa terra, la Chiesa. Aveva molto più senso laico di statalità Moro, anche se non si poteva considerarlo un cattolico liberale.

In che senso?

Bisogna distinguere tra democratico e liberale. Ad esempio, io ho sempre sostenuto che il regime dei Soviet fosse un regime democratico.

Nel 1917, o anche dopo?

Nel 1917 certamente, e con le storture anche dopo. Il regime democratico è il regime della maggioranza, nel senso tardomedievale del temine: non solo major, ma melior pars. La dittatura del proletariato è cosa ben diversa dal governo dell’aristocrazia, perché è il governo della parte più cosciente. Che non ha come fine quello di fare i propri interessi, anche se poi magari li fa, ma di fare gli interessi della collettività: da cui la famosa tesi leninista, che la coscienza di classe non nasce dentro il proletariato, ma viene portata al proletariato da fuori, dal partito.

E lei pensa che la democrazia si possa coniugare con il comunismo?

La democrazia senz’altro, come ha dimostrato l’Unione Sovietica. Il liberalismo meno.

Cosa intende per ‘liberalismo’?

La grande concezione della libertà di Locke, che non può diventare né comunista né staliniana. Per essere comunisti bisogna derivare storicamente da Rousseau e dai giacobini, che costituiscono l’altra grande concezione della libertà.

Ed è possibile coniugare la democrazia con i servizi segreti?

Di nuovo, la democrazia sí.

Piergiorgio Odifreddi

*Spiegazione. Piergiorgio Odifreddi è un uomo dalla simpatia d’altri tempi. Insieme, a cena, qualche sera fa, abbiamo condiviso un dolce bizzarro – stessa ciotola, due cucchiaini – parlando di poesia e letteratura (ci accomuna – gioco facile – l’amore per Borges e Pound), della teoria della traduzione secondo Vladimir Nabokov, della sua versione di Lucrezio. Di Odifreddi mi affascina che ha inseguito, da sempre, le “grandi menti”: ha intervistato scrittori – José Saramago, J.M. Coetzee, ad esempio –, scienziati, teologi. Tra le interviste più brillanti, quelle ai due politici emblematici della storia italiana: Giulio Andreotti e Francesco Cossiga. La seconda intervista, in particolare, mi è parsa piena di intelligenza. Chi l’ha pubblicata?, gli faccio. Nessuno, replica lui. Allora la pubblico io! L’intervista è molto lunga, nel sito del “matematico impertinente” potete leggerla per esteso, stamparla, sottolinearla: qui ne estrapolo la prima parte. (d.b.)

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