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Fra cinque anni Melania Delai vincerà a Wimbledon, di Teo Parini

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Cominciamo dall’attualità. Coach Massimo Sartori entra a far parte del nutrito team di Melania Delai, la tennista che entro cinque anni a partire da ora diventerà la regina di Wimbledon. E se non dovesse succedere, ma succederà, noi di Ticino Notizie – parafrasando Rino Tommasi, il nostro Maestro – la smetteremo di raccontare il tennis. Considerando quanto ci piaccia farlo, si può comprendere la fiducia che riponiamo in lei e in chi ne orienta il cammino. Gaudenti in Church Road, allora, ci strafogheremo di fragole sommerse da panna o sorseggeremo del tè britannico con una venatura di latte, versato per primo nella tazza alle cinque di pomeriggio in punto, mentre dall’alto del campo centrale più famoso del tennis, in compagnia, forse, di Gianni Clerici e sicuramente di mamma Monica, osserveremo una bella storia di sport e di vita, che poi sono la stessa cosa per chi ha compreso i segreti di entrambi.

Per i non addetti ai lavori, dunque solo parzialmente assolti, Melania detta Melly è una giovane tennista professionista classe 2002 che nel corso di questa stagione riscritta dal virus ha compiuto almeno tre passi giganti verso ciò che verrà. Uno: a Roma, sui campi degli Internazionali d’Italia, si è presa lo scalpo, il primo che non si scorda mai, di una giocatrice inclusa tra le migliori cento del ranking mondiale, certificando un sopraggiunto livello di gioco che per una diciottenne, o quasi, odora diffusamente di gloria. Due: Robertina Vinci, la più talentuosa giocatrice italiana da quando il tennis lo si vede a colori, si è innamorata di lei al punto da scendere in campo nelle vesti di allenatrice, amica e consigliera. Come se per un aspirante chef, Barbieri decidesse di scomodare tre stelle del proprio inesausto sapere culinario, un’investitura. Tre: l’interessamento dei media, la crescente popolarità e i risultati lusinghieri ne hanno accentuato i lati distintivi del carattere. Era umile, disponibile e gentile, prima, e adesso lo è ancora di più. Controtendenza che inorgoglisce in un mondo, quello della competizione, funestato da spacconi e cattive maniere. Che dire, dodici mesi forieri di certezze, ma lo sapevamo già.

Un passo indietro fino all’estate del 2016. Melania a quel tempo è una ragazzina di sole quattordici primavere che a tennis, a ben pensarci, non gioca poi da così tanto tempo. Non è, insomma, una di quelle che dismesso il biberon hanno imbracciato la racchetta. Prima, infatti, altri sport ne hanno arricchito le giornate: basket, pallavolo, nuoto, ginnastica artistica. Ma quest’ultima, davvero, non l’ha mai digerita. Lontano dalla sua comfort zone, l’Accademia tennistica di Padova, la conoscono ancora in pochi – è normale – ma come tutti i coetanei di questa generazione Z, così diversa dalla nostra che l’ha preceduta, spicca per un’attività social che definiremmo intensa. È così che un video ci colpisce con la guardia abbassata. Melania, con i chili, pochi, e i centimetri, altrettanti, di una ragazzina della sua età, è impegnata in un esercizio al cesto, dove corri e tiri dritti e rovesci a perdifiato, colpendo il più alto numero di palle nel minor tempo possibile. Sono due i pugni al plesso solare che ci stordiscono. Anzi tre. Melly, tanto per cominciare, ha una velocita di piedi e una coordinazione da ballerina del Bolshoi: questione cromosomica, o ce l’hai impressa nel patrimonio genetico o con il lavoro non è lecito attendersi miracoli. Di più, Melly ha una pulizia tecnica da scuola cecoslovacca, e chi ha ammirato visceralmente la divina Hana Mandlikova o qualche sua meravigliosa erede, Petra Kvitova per dirne una, sa di cosa stiamo parlando. Forza – così teorizza Newton – è prodotto di massa, pochina quella di Melania, e accelerazione (di braccio), molta. Morale, la palla fila come un treno, dritto e rovescio con la dovuta simmetria moderna, e risulta pesante, per chi la riceve, e leggera nel fuoriuscire dall’attrezzo. Dicotomia di non facile comprensione ma garanzia di rara non ordinarietà. Delai, annotiamo sul taccuino.

Collaboratore, in quei giorni, della prima rivista web di tennis in Italia, succede che mi gioco due spicci di credibilità investendo, moralmente s’intende, e forse per primo, un vanto, su quella giovane tennista scoperta per un caso fortuito e il risultato è una bella intervista ‘tripla’ che chiedo e ottengo di pubblicare per Natale, a mo’ di regalo per il contagioso entusiasmo ricevuto. A far da scudo a Melania, per l’occasione, ci sono, infatti, Monica, la mamma, e Alessandro Bertoldero, per i più attenti già coach di Maria Camerin nonché uno di famiglia. Scopro, grazie a loro tre, l’esistenza di un microcosmo speciale dove competenza e professionalità spinta a livelli di eccellenza vanno a braccetto con le esigenze di una teenager da preservare, in uno spaccato di vita complesso come l’adolescenza sa essere. Conosco Monica, che è la versione affabile di Judy Murray; donna, quindi, di inesauribile energia che si occupa di tutto ciò che non è strettamente connesso al playground. Per capire l’importanza capitale di una figura simile al fianco basterebbe chiedere proprio a Andy, lo scozzese figlio di Judy coi dentoni e la mano di un angelo, i cui successi hanno due mentori certi: Judy appunto, però quella originale che non ride mai, e gli dei del tennis. Mille i problemi da dirimere, il bilancio da far quadrare – sì, il tennis costa un sacco di soldini che spesso non ci sono – e la federazione che latita, ma qui ci vorrebbe un discorso a parte. Oltre a quelli gravosi di una mamma, proprio come tutte. Alessandro è uomo esigente, dunque affascinante per definizione, pochi fronzoli quando serve e un fil rouge di saggezza non solo tennistica. Ha accompagnato per mano, in passato, atleti di tutti i livelli e ha visto in Melania doti per le quali allenare è un appagante privilegio e, anche per questo, dedica tutto quel che ha in questo ambizioso progetto. Entrambi, Monica e Alessandro, si assicurano che il tennis resti per Melania intanto una gioia prima che una professione, questione di amore, rispetto per la vita e le sue fortune e tutela. Tuttavia i campioni che verranno hanno, tra le tante, una dote particolare, quella di imparare tutto molto in fretta, prima degli altri, e Melly, che di certo non è l’eccezione alla regola, lo sa benissimo da sé: quindi gioca, cresce e non ci perde mai il sorriso. Figuriamoci per un’intervista o una partita mal giocata.

Tornando ai giorni nostri, sembra ieri ma sono passati già quattro anni intensi di esperienze sul campo – all’Accademia di Rafa Nadal a Manacor, per esempio, o da Diego Nargiso a Sanremo – impreziosite anche da una finale ITF a Heraklion, purtroppo non disputata per via di un piccolo infortunio, l’off-season è sempre tempo di bilanci, oltre che di rifornimento al motore e momento di pianificazione. Così da qualche giorno è il Tennis Club Vicenza a fare da campo base per la preparazione invernale alla scalata del 2021 della trentina azzurra. La novità è, appunto, Sartori, storico allenatore di Seppi e poi di Cecchinato, che darà manforte e ulteriore esperienza al collaudato gruppo di lavoro. Alle spalle, ancora vivida, l’ultima stagione di transizione, ottima per tanti versi – lo si è già detto poc’anzi – tuttavia senza il risultato col botto nel mondo junior che, forse, qualcuno si sarebbe aspettato, anche se un terzo turno nell’Happy Slam australiano a inizio 2020 non è affatto male, soprattutto se l’eliminazione dalla colorata kermesse avviene per mano della futura vincitrice del torneo dopo un match point a favore. C’è da dire una cosa: vincere, ma anche dominare, da junior non è affatto detto costituisca la cartina al tornasole di ciò che di bello accadrà poi. Ce lo insegnano le esperienze antitetiche di Jannik Sinner e, purtroppo, di Gianluigi Quinzi, il campione junior di Wimbledon 2013 per chi ancora se lo ricorda. Certo, la vittoria è sempre un indizio ma molto dipende dalla strategia formativa costruita sull’atleta oltre che da un sacco di altri fattori, tra i quali la maturazione fisica più o meno precoce e la forza mentale che diviene spartiacque solo nel mondo adulto. Nello sport, tennis incluso, non è affatto detto che ciò che è oggi sarà pure domani, ancor meno se in mezzo ci sta il salto carpiato tra i Pro. E così, sempre a proposito di attualità, Jannik il rosso, che non verrà certo ricordato per le mirabilie compiute tra i giovani non essendo mai andato oltre il numero 107 della relativa classifica, da giovane, scala le gerarchie del tennis dei grandi perché, proprio alla stregua dei grandi, ha imparato a comportarsi, quando altri ragazzini come lui si preoccupavano ‘solo’ di vincere contro altri ragazzini anziché investire su loro stessi, finendo per essere investiti dalla fretta più che dalla fama. Analogo discorso sarebbe replicabile per Matteo Berrettini, junior modesto e oggi luminescente Top 10 con partecipazione al Masters degli otto capofila già nel 2019. Fretta, dunque, la cattiva consigliera che Melania e tutto il suo staff hanno sostituito con la pazienza di chi, conscio delle proprie possibilità e fiducioso nelle tappe da compiere, tiene sempre in mente che in una grattacielo a contare sono le fondamenta più che i suppellettili. E così Bertoldero si è preso – e si prende – il tempo necessario per arricchire di frecce la faretra di Melly. Per provare a scardinare in un futuro prossimo la Osaka, o la prossima campionessa di riferimento che verrà, sono due le strade percorribili: tirare più forte sbagliando di meno o avere più soluzioni di qualità per le mani; si può allora essere Gauff (fortissima) o essere Barty (abbacinante). Melly ha stabilito che il target è quello di saper fare, con qualità, più cose possibili, il piano B che invece non possiede la formidabile Camila Giorgi. Un’opzione, quest’ultima, che richiede un lavoro in età adatta, benché i campioni insegnino che non si smetta mai di imparare, e specifico. Lavoro che, se può sacrificare in parte il presente, getta basi solide per il futuro. Se dunque, per dirla alla Joe Strummer, il futuro non è mai scritto, non vuol dire che non possa comunque essere indirizzato con la nostra volontà e il team Delai ne è fulgido paradigma.

Un ricordo personale. Milano, TC Bonacossa, storica sede del Torneo Bonfiglio giunto, all’epoca, all’edizione numero 60. Melania, in tabellone per diritto di classifica, si appresta a scendere in campo. Le condizioni sono pessime, da giorni piove e il gioco va a singhiozzo costringendo le giovani atlete ad attese snervanti negli affollati spazi messi a disposizione nella rumorosa club house, tra atleti che ingannano il tempo ascoltando musica, addetti in cerca di notizie da trasmettere e semplici curiosi. Il peggio, quindi, per mantenere lo stress entro livelli accettabili. Finalmente il cielo schiarisce ed è l’ora di Melly alla quale un sorteggio non troppo morbido ha appioppato la numero 10 del seeding. La incrocio sul vialetto in graniglia che conduce al campo designato nel momento di massima tensione emotiva, quello in cui si è chiamati a raccogliere le energie mentali che lo sport del diavolo esige senza sconti. “Non farle troppo male”, le dico, scordandomi che un’intromissione simile mi avrebbe infastidito anche in un torneo di quarta categoria, altro che Bonfiglio ovvero il tempio degli aspiranti campioni. Melania si volta e sorride esibendo calma serafica: “È solo un gioco”, esclama, prima di aggiustarsi la treccia. Perderà quella partita, un dettaglio, ma è in quell’attitudine genuina e matura che si distingue chi nella vita ha già vinto a prescindere. I trofei verranno, ci abbiamo scommesso e avremo modo di tributarli, ma saranno solo un di più.

Un consiglio: preparate l’abito della festa. Il tempio di Wimbledon ha un inviolabile protocollo e farsi trovare impreparati è sempre un errore imperdonabile.

Teo Parini

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