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Dall'archivio:

Ferru, tupamaro che mai si risparmiò, ha detto basta- di Teo Parini

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David Ferrer detto Ferru ha deciso che può bastare così, non ci saranno ripensamenti. E ha scelto Madrid per il congedo, un torneo che ha solo sfiorato nella sua lunga attività agonistica, tuttavia per dirla alla sua maniera “fortunatamente sono i rapporti umani quelli che restano”.

Se un trofeo, pur importante che sia, va e viene – e comunque David in bacheca di piatti e coppe d’argento ne ha archiviati quasi una trentina e pure di un certo spessore – l’amore incondizionato di un pubblico vasto ogni anno di più è il miglior attestato possibile della grandezza di un tennista che di avversari ne ha visti passare tanti, e molti li ha sconfitti, senza mai aver lesinato una goccia di sudore. Una gran bella persona. Ha iniziato a mulinare le gambe alla velocità della luce che era ancora bambino e ha smesso solo qualche giorno fa, due decadi dopo, con il mondo intorno a lui – e il tennis non fa eccezione quale parte di esso – profondamente cambiato. Lo ha sempre fatto a testa alta, perché la fatica immane che il gioco del diavolo riserva a quelli come lui, più esigenti per genesi con i quadricipiti che con la manualità, non gli ha mai fatto paura. Figuriamoci.
Nemmeno quando, leggenda narra, per una palla sbagliata in allenamento, magari affossata in rete, uno dei suoi primi mentori lo rinchiudeva per punizione nello stanzino delle scope. Al buio, per meditare sull’accaduto. E se la pedagogia avrebbe tuttora di che ridire su un approccio educativo financo crudo, il risultato tangibile è che Ferrer ha così abbracciato senza remore il dogma dell’infallibilità. In altre parole, per stagioni e stagioni, David ha rispedito al mittente palline pelose di ogni risma e complessità senza sbagliare mai, noncurante dell’affanno e delle rincorse pancia a terra ben presto divenute un identitario marchio di fabbrica. Quintessenza iberica del tennis-percentuale elevato esponenzialmente a arte nobile. E se per ‘classe’ riteniamo sempre attuale l’assunto del maestro Rino Tommasi, che la definisce come la capacità innata di fare la cosa migliore nel momento di incipiente necessità, Ferrer ha dimostrato di possederne a iosa. Con buona pace di chi, ancora oggi, si ostina a non comprendere la distanza siderale che intercorre tra classe, appunto, e talento, inteso, quest’ultimo, come possesso di una capacità di gesto superiore alla media dei rivali. Killer instinct da una parte, competenza tecnica dall’altra: sommabili ma non sinonimi.

E se la delicatezza di tocco e il ventaglio di soluzioni balistiche dello spagnolo con i capelli tenuti a bada da una fascetta non passeranno agli annali, quel che per certo ricorderemo con ammirazione mista a nostalgia, maratone a parte, sarà l’intelligenza tennistica che nel nome di Euclide e relativa geometria piana lo ha sospinto in alto, molto in alto, fino alla terza posizione mondiale, con l’aggiunta di una finale Slam parigina. Per di più nell’epoca peggiore possibile per le ambizioni di paradiso della classe ouvrière, brutalizzata dalla luminescente cricca dei Magnifici Quattro (talvolta Cinque), cannibali di un’ingordigia agonistica tale da concedere alla seppur meritevole prima fascia di rincalzo, alla quale David appartiene di diritto, le briciole. Tanto di cappello, allora, a un ragazzo così pugnace e volenteroso da intromettersi, con umile costanza e attitudine proletaria, nel microcosmo elitario della racchetta, spostando l’asticella a ogni calar del sole un pochino più in alto al punto da guadagnarsi il rispetto incondizionato del circus. Colleghi, tifosi, addetti ai lavori.
“Voglio smettere senza odiare il tennis”, ebbe modo di dire Ferrer piuttosto di recente. Odio, nei confronti di una passione smisurata che solo un fisico esausto avrebbe potuto finire per instillare nell’animo di un’anima affabile con pochi eguali e che allo sport ha dato ogni molecola di sé stesso, ottenendo, almeno in termini di almanacchi, meno di quanto forse avrebbe meritato. Allora meglio dire basta, perché se testa e cuore sono ancora quelle di un teenager, quindi super, con trentasette primavere all’anagrafe le articolazioni, via via meno propense a smaltire i soprusi del professionismo applicato al gioco, hanno acceso la spia gialla della riserva. Inequivocabile cartina al tornasole di un serbatoio che per anni abbiamo immaginato inesauribile, dimenticando che David è pur sempre un uomo e, come tale, subalterno alle leggi di Chronos. E così, quando è giunto il momento di apprestarsi a servire per l’ultimo quindici della carriera, David – che tra un punto e l’altro per una vita intera è andato a cento all’ora come morso dalla tarantola – si è regalato qualche secondo in più. Poi il silenzio, un lungo respiro, un’asciugata agli occhi umidi e lo scambio che ha messo la parola fine alla saga dell’ultimo terraiolo di razza. Standing ovation.

Laureato con lode all’università del mattone tritato, saranno infatti molti i giovani che negli anni a venire si prenderanno la briga di scandagliare la simbiosi di Ferrer con le dinamiche della terra rossa, Ferrer ha incarnato l’archetipo del rivoluzionario applicato al tennis, un tupamaro gentile animato da sfide estreme che solo gli sprovveduti hanno creduto più grandi di lui. Ferrer da Javea rappresenta quindi, per la disciplina che fu dei Moschettieri, la normalità solo apparente che attenta alla dittatura del talento, il guanto di sfida del pragmatismo proletario al genio e all’improvvisazione, il biblico Davide (quello della fionda, nomen omen) che soverchia Golia e l’ordine precostituito delle cose, la matematica certezza che la volontà è sempre in grado di neutralizzare il concetto di impossibile.

David può dunque essere orgoglioso del suo cammino. Tra i tanti regali ricevuti, uno su tutti non può passare inosservato perché a spendere parola è stato Roger Federer. “È un giocatore che considero al mio stesso livello”, la chiosa del più talentuoso di questo e altri eventuali mondi. Ovviamente non è proprio così, tuttavia modo migliore di ringraziare David Ferrer per averci insegnato a trasformare il pane duro in caviale proprio non c’era.

Hasta luego, Ferru. Ci mancherai.

Teo Parini

Questo articolo fa parte dell'archivio di Ticino Notizie e potrebbe risultare obsoleto.

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