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Felicità o dipendenza: a colloquio con l’esperto Aldo Violino psicologo del SERT

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Aldo Violino è psicologo del SERT (Servizio per le Tossicodipendenze), si occupa della prevenzione, della cura e della riabilitazione di persone con problemi di abuso di sostanze stupefacenti e di dipendenze.

Cosa è cambiato nel tempo nel campo delle tossicodipendenze?

Ho iniziato a lavorare in questo campo nell’89 e la situazione rispetto ad oggi era completamente diversa per quanto riguarda la tipologia d’utenza: una volta c’erano gli eroinomani che, in sostanza, erano persone emarginate, che presentavano sintomi  fisici. C’era una situazione emergenziale pesante sul piano della sicurezza perché i soggetti dipendenti commettevano furti per ottenere soldi e vi era anche il problema dell’AIDS, che allora era terribile, si moriva quasi subito: pochissimi si salvavano. Ora la tipologia delle persone dipendenti da sostanze si è completamente modificata: siamo passati ai cocainomani. C’è stato un salto culturale: prima la persona si metteva ai margini come protesta rispetto alla cultura presente, ora la sostanza viene usata per integrarsi maggiormente. Questa risponde infatti immediatamente a un bisogno: necessito di garanzie e, in modo illusorio, le sostante me le danno; ho bisogno di fare bene una prestazione e di non sbagliare e, con la sostanza, ho l’illusione che questo possa accadere. La droga mi fa superare l’ansia e diventa un modo per evitare tutta una serie di problematiche.

Come mai queste persone non tengono alla salute del proprio corpo?

Prima di tutto ragionano sul “qui e ora” e hanno l’illusione di onnipotenza, ovvero che a loro non possa succedere niente. Sono persone molto  sbilanciate sull’esito: hanno paura di affrontare una data situazione, hanno bisogno di garantire una buona prestazione, quindi discorsi razionali sulle conseguenze della dipendenza non hanno presa su di loro perché domina il piano emotivo; il livello culturale e formativo della persona non prevale. Lo sbilanciamento è sia sulla prestazione che sulla dimensione del piacere: le sostanze hanno conseguenze negative, ma chi le assume sperimenta nel tangibile soltanto l’aspetto positivo.  Dice chi l’ha provata che il piacere dato dalla cocaina sia incredibile, superiore a qualsiasi altro: nel momento in cui la si conosce, la sostanza diventa purtroppo un’alternativa sempre presente. Chi non l’ha mai provata non ha quel sentire di chi ne fa uso e a cui quella percezione rimane a vita. Molti mi dicono: “Non avrei dovuto conoscerla!”, perché una volta provata non riescono a farne a meno. Chi  ha avuto esperienze negative non ne ripete più l’uso, ma la maggior parte non se ne allontana più.

I pazienti che si rivolgono al SERT si fanno curare volontariamente?

Le persone che vengono volontariamente sono un numero ridotto; di solito sono trascinate dai famigliari, e sono persone che hanno problemi economici: solo per questo vogliono riuscire a smettere, oppure perché hanno problemi legali dovuti prevalentemente a spaccio o altri reati, come rapine (per procurarsi denaro). Si pongono nei miei confronti come a dire: “Cosa vuoi?”. Mentre l’eroinomane, presentando sintomi fisici, è  più cosciente di avere un disagio, il cocainomane non ha tali sintomi (anche se gli abusi possono portare a tachicardia, infarti ed altre problematiche) e ciò – unitamente al fatto che la sostanza risponde immediatamente a un bisogno – rende ancora più difficile la percezione di avere un problema. Siamo passati da persone che chiedevano aiuto perché stavano male a persone che non stanno male e che faticano a chiedere aiuto e che pensano che la loro vita sia compatibile con l’uso di sostanze.

Si riesce ad uscire da questo tipo di dipendenza?

Difficilmente: gli esiti positivi dei percorsi sono pochi. La difficoltà principale è proprio costituita dal fatto che i soggetti dipendenti non dimenticheranno mai il piacere derivato dalla cocaina; la soluzione va ricercata nel trovare un modo di gestione. Non solo bisogna cioè allontanarsene, ma bisogna anche costruire un nuovo stile di vita che realizzi e che, al tempo stesso, costituisca un fattore protettivo rispetto alle ricadute. Come terapeuta devo quindi lavorare su due fronti: il paziente deve riuscire a creare le condizioni che gli permettano di non ricadere. È molto dura.

C’è poi la dipendenza da alcol.

Quasi sempre l’alcol è associato alle sostanze. Molti lo usano o prima o dopo la cocaina: prima perché si disinibiscono, dopo per abbassarne gli effetti, per poter  tornare a casa, al lavoro, alla normalità, senza che nessuno se ne accorga. I SERT lavorano con pazienti dipendenti da sostanze e da alcol, mentre i NOA soprattutto con l’alcol. Le ricadute della cocaina avvengono al 95% passando proprio dall’alcol. Persone motivate a smettere l’uso di sostanze, se però assumono alcol -che abbassa le difese- ritornano ad essere esposti a una situazione di pericolo.

Lavorare in questo campo è dunque frustrante?

Ho scelto di lavorare con le dipendenze perché ho escluso altre aree in cui non vedevo possibilità di guarigione. In termini emotivi ho scelto questa area perché la dipendenza non è una condizione immutabile: c’è una via d’uscita che è la gestione, anche se è molto difficile da realizzare. Alcune persone hanno cambiato stile di vita, si sono allontanate definitivamente dalla sostanza, costruendo altro. Chi non riesce a uscire dalla dipendenza continua invece a galleggiare: la maggior parte delle persone dice di venire in terapia per smettere ma, in realtà, la domanda sottesa è un’altra: “Dimmi come fare a usare la cocaina ogni tanto senza andare incontro ai guai.”. La mia risposta è: “Non c’è questa possibilità”, ma questa mia asserzione non è gradita. Molti affermano infatti di essere per esempio dei padri adeguati, presenti con i loro figli, nonostante la dipendenza, ma quando c’è di mezzo una sostanza, proprio la dipendenza ti porta via la testa, è talmente dominante e prevalente nella vita che tutto il resto scende di livello. Questo concetto è ciò che cerchiamo di trasmettere ai famigliari, che molto spesso colpevolizzano il figlio/il marito di non avere sufficiente volontà, invece bisogna entrare nella logica che c’è qualcosa che va al di là di quest’ultima (il che non li giustifica): il loro hard disk è pieno, non c’è più spazio per nient’altro; mio compito è allora cercare di ridurre la dominanza dell’oggetto per aprire spazi per altro. Ho bisogno degli esami delle urine per fare il controllo e vedere se le persone fanno uso, ma quando comincio a sentire che il paziente parla di progettualità significa che si sta liberando uno spazio per altro. Di solito infatti i pazienti dipendenti da sostanze  portano in terapia contenuti che riportano sempre al tema principale: la loro vita è centrata su quello, come in tutte le dipendenze. È una battaglia durissima, una lotta continua e spesso fallimentare, per questo pochi vogliono lavorare nel campo della dipendenza. Io parto sempre pensando di potercela fare.

Quali sono i fattori di rischio? Perché si cade nell’uso di sostanze?

Perché non si sono sviluppate, nel percorso formativo, delle competenze di vita adeguate, le life skills. Se un bambino non acquisisce una serie di abilità si troverà ad affrontare scoperto una fase già a rischio come quella dell’adolescenza. Nel momento in cui non è sufficientemente solido, l’adolescente sarà maggiormente esposto alle sostanze, potrà cedere per esempio ad un’ipotetica pressione del gruppo dei pari, per non perdere delle relazioni per lui significative. Competenze di vita sono, ad esempio, il senso critico, o il volersi bene: non ce le si impone a 15 anni, ma si costruiscono nel tempo. Un fattore di rischio è anche il mancato accompagnamento, in certi momenti del percorso di vita, e lo scarso presidio delle figure genitoriali. Io, come genitore, non devo solo controllare, ma esserci, mantenere un ruolo con funzioni contenitive e di riferimento: nella nostra cultura occidentale pensiamo che dobbiamo sempre fare qualcosa, invece quello che viene richiesto è esserci emotivamente. Molti adulti cedono su questo punto, soprattutto i più giovani, che con bambini di 2 o 3 anni sono già disperati perché non in grado di gestirli, figuriamoci in adolescenza. Il genitore deve imparare a valorizzare le diversità come risorse e non come problemi, ed essere flessibile: promuovere più che proteggere. Altre doti importanti genitoriali sono la capacità di ascolto, quella di riconoscere le difficoltà e di chiedere aiuto e poi la pazienza, soprattutto nell’accettazione e nella valutazione delle trasgressioni “fisiologiche”.

Cosa può fare un genitore per instaurare una buona relazione con i figli, che rappresenti anche una tutela importante dalle dipendenze?

Essere presente soprattutto nei momenti difficili (tenere la porta aperta), seminare attraverso l’esempio personale, nutrire fiducia e speranza evitando paure e ansie eccessive, essere autorevoli e non autoritari e condividere emozioni e sentimenti. Di norma un adolescente è talmente innamorato del genitore che lo devo colpevolizzare di qualcosa per potersi allontanare, ma come si fa ad allontanarsi da un genitore, se questo è già in partenza poco significativo? Quest’operazione diventa impossibile. Ciò espone il figlio ulteriormente: già il ragazzo sente che deve affrontare qualche compito percepito come difficile, non ha nessuno che lo accompagna emotivamente, si deve così arrangiare e le sostanze rispondono “bene”, in quel momento. Se non ho delle figure di riferimento significative e non ho amicizie di un certo tipo, sono molto esposto. L’altro dramma a livello genitoriale è che oggi sono i genitori ad aver paura di perdere l’affetto dei figli e non il contrario e questo è contrattualmente un disastro. Ci sono donne che sentono di aver assunto un ruolo solo nel momento in cui diventano madri, peccato che quando i figli si allontanano fanno fatica a lasciarli andare!

Qual è il messaggio importante da dare ai ragazzi?

I ragazzi scelgono spesso le scorciatoie, perché hanno fatto percorsi di vita in cui non hanno mai dovuto subire delle piccole frustrazioni, frustrazioni che però gli avrebbero permesso di “attrezzarsi”. Rispondono a queste logiche attuali: vogliono tutto e subito, ricercano garanzie, non vogliono provare ansie, non sono disponibili a gestire le frustrazioni, hanno paura del fallimento e non vogliono far fatica. La mia generazione ha invece acquisito le competenze di vita: io avevo paura di perdere l’affetto dei miei genitori e non il contrario, ho dovuto “smazzarmi” delle cose da solo emotivamente e mi sono “attrezzato”. I ragazzi di oggi questo percorso non lo fanno, infatti quando vengono lasciati o sperimentano fallimenti scolastici vanno totalmente nel panico e non sanno come gestire la situazione. Gli adolescenti hanno bisogno di crearsi un “padrone” (il cibo, internet, il partner…) in quanto sentono l’angosciosa mancanza di qualche cosa in grado di riempire il vuoto. Questo vuoto è causato dalla bassa autostima, dall’incapacità di costruire e mantenere rapporti intensi, dall’inibizione, dalla difficoltà a gestire il tempo e tante altre angosciose sensazioni. Quanto è più rassicurante immergersi per ore nella virtualità della rete o in vacui sogni di vittoria promessa dal gioco d’azzardo, anziché affrontare la realtà?

I ragazzi hanno il senso del pericolo della dipendenza?

Assolutamente no. Sono centrati sull’esito della prestazione e non sul processo: non gli interessa prendere qualcosa per poter dare una buona prestazione. Bisogna spiegare ai giovani che queste scorciatoie non attrezzano sufficientemente ad affrontare le vere sfide della vita. Ci sono ragazzi di 20 anni che prendono il viagra! Ragazzi in gamba, culturalmente preparati, perché lo fanno?! Significa che hanno il terrore del fallimento e che non sono sufficientemente equipaggiati. Al SERT stiamo incominciando a ricevere anche persone di 15 anni.

Hai recentemente tenuto un incontro presso il Liceo Majorana di Rho, organizzato dall’Associazione Genitori dal titolo: “Dipendenze: sintomi, conseguenze e rimedi”. Un evento particolarmente partecipato e riuscito.

Abbiamo pensato: perché non dare voce ai ragazzi? Di solito sono sempre gli adulti a trasmettere informazioni dall’alto, così abbiamo proposto: perché non fate voi una ricerca? Gli alunni si sono divisi in tre gruppi, hanno approfondito la dipendenza da gioco d’azzardo, da alcol e da dispositivi elettronici. Sono andati a ricercare i dati, a capire quali sono i meccanismi psicologici di fondo e hanno esposto davanti ai loro compagni e ai genitori. Sono stati molto bravi, hanno affermato di essere diventati più consapevoli e di aver compreso che queste problematiche li possono riguardare personalmente. Credo che un incontro come questo, partecipato da ragazzi e genitori (circa 300 persone) possa essere un buon modo per affrontare il tema.

Qual è la correlazione tra i diversi tipi di dipendenze?

Le dipendenze comportamentali condividono con quelle da sostanza alcune caratteristiche: il soggetto dipendente è incapace di esercitare un controllo su se stesso e non riesce a rinunciare all’oggetto; l’attività domina i pensieri e assume un valore primario tra tutti gli interessi; nel corso dell’attività si prova un aumento d’eccitazione o maggiore rilassatezza; bisogna aumentare il tempo di uso per avere l’effetto desiderato e vi sono sintomi d’astinenza e tensioni, poiché la persona è in conflitto con se stessa a causa del comportamento dipendente. Vi è inoltre la tendenza a ricominciare l’attività dopo averla interrotta (la cosiddetta ricaduta). Il punto centrale è che il modo di pensare cambia a causa dei meccanismi della dipendenza, non per il tipo di sostanza che si assume. Noi tendiamo a pensare che la dipendenza non cambi niente a livello cerebrale, ma se io, ad esempio, sono dipendente dal tabacco, il mio primo pensiero è quello e condizionerà le mie relazioni perché, se sono astinente, sono preso da altro: è un modo di pensare che non è libero! Magari sto intraprendendo una bellissima discussione con una persona, ma ad un certo punto sento l’astinenza da sostanza; potrebbe essere il momento più bello della mia vita, ma prevale quello.

Le dipendenze tolgono la libertà personale.

Sì: sono libero all’interno di una gabbia dorata. Non funziona e non serve minimamente dire ai giovani: “Ma scusa, non ti dà fastidio prendere qualcosa per superare la paura?”. Ti rispondono: “Assolutamente no”. La mia generazione invece aveva l’amor proprio di riuscire ad affrontare una situazione da solo. Se mi viene l’ansia, devo sapermela gestire.

Si apre il tema sulla virilità maschile del giorno d’oggi.

Io come uomo devo saper affrontare la situazione da solo; di fronte ad una prestazione importante l’ansia rimane, ma ho la soddisfazione di essere riuscito a gestirla. Se dovessi invece aiutarmi con qualcosa, lo vivrei come un dramma. Per esempio mi ricordo che quando ero giovane, una sera, la mia tutor mi ha detto: “Stasera parli tu in conferenza”. Mi ha buttato lì! Adesso non lo faremmo più, perché dobbiamo accompagnare, prevedere, garantire sicurezza, serenità, comprensione, “altrimenti ai ragazzi vengono i traumi”. Guido Tripaldi ha scritto: «Il motore della vita è il desiderio, il desiderio nasce per qualcosa che non c’è, che appare lontano e per ottenere il quale occorre lottare, lavorare, talvolta soffrire. Ma alla fine la meta raggiunta ci ricompensa, e quante volte abbiamo affermato, una volta giunti alla meta, che forse era più ricca di stimoli la strada per raggiungerla?». La domanda che rivolgo ai dipendenti da sostanze è: “Ne puoi fare a meno?”. Se tu mi racconti che fai anche solo un’assunzione all’anno, ma non sei in grado di farne a meno, allora sei dipendente. Dipendenza è quando hai un legame di cui non puoi fare a meno, anche se fosse solo di una volta all’anno. Se le sostanze non avessero controindicazioni, ci faremmo tutti, invece anche chi ne fa uso e viene in terapia, gradualmente matura la percezione che saper gestire la sostanza è solo un’illusione, infatti io termino tutti i colloqui con una domanda: “Ma alla fine, sei felice?”. Rispondono tutti: “No”.

 

 

 

Irene Bertoglio è scrittrice, grafologa, rieducatrice della scrittura e perito grafico-giudiziario. Per anni ha gestito una struttura nell’ambito formativo ed educativo. Ha tenuto e tiene numerosi corsi di aggiornamento e innovativi progetti sperimentali nelle Scuole dell’Infanzia, Primaria e Secondaria, soprattutto di prevenzione della disgrafia e di orientamento scolastico e professionale. È autrice di diversi libri, tra cui, con lo psicoterapeuta Giuseppe Rescaldina: “Il corsivo encefalogramma dell’anima” (Ed. “La Memoria del Mondo”). È direttrice dell’Accademia di Scienze Psicografologiche con sede nel centro di Magenta, che organizza corsi e incontri di psicologia, grafologia, calligrafia e non solo (www.psicografologia.wordpress.com). L’autrice è contattabile all’indirizzo psicologiadellascrittura@gmail.com.

 

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