― pubblicità ―

Dall'archivio:

Enzo Jannacci, il dottore che cantò l’operaio con ‘garra’ (e la Vincenzina) – di Teo Parini

+ Segui Ticino Notizie

Ricevi le notizie prima di tutti e rimani aggiornato su quello che offre il territorio in cui vivi.

Attenzione: questo articolo fa parte dell'archivio di Ticino Notizie.

Potrebbe contenere informazioni obsolete o visioni da contestualizzare rispetto alla data di pubblicazione.

 

Sette anni fa, oggi, Vincenzo Jannacci detto Enzo lasciava un mondo che aveva contribuito a rendere migliore grazie a un talento, poliedrico e popolare, per molti versi senza eguali. Fu davvero una brutta giornata.

E se a vederlo sul palco, fino alla fine, la tentazione di non dargli una lira è sempre rimasta immutata anche per chi, come chi scrive, lo ha sempre venerato – del resto fu lui stesso a non prendersi mai troppo sul serio indossati i panni dell’artista, come solo le personalità più spiccatamente sensibili sono in grado di fare – la sua mancanza ne amplifica a dismisura, in questi tempi aridi e stereotipati, lo status di gigante a tutto tondo, da poeta in giù. Una luce.

 

Forse molti non ne sono a conoscenza ma Enzo, nato nella Milano in bianco e nero a cavallo delle due guerre, fu intanto uno stimato chirurgo, uomo capace di coniugare nella stessa anima irrequieta la stravaganza dell’artista e il rigore scientifico di un professionista dedito alla salvaguardia del bene supremo, la vita. Non solo, perché, insieme agli studi universitari che lo avrebbero portato al giuramento di Ippocrate, Enzo non si negò il Conservatorio con diploma di pianoforte, armonia, composizione e direzione d’orchestra. Musicista vero, prima di tutto. Al cospetto di Jannacci fu impossibile abbassare la guardia: quando si pensava di averlo inquadrato entro contorni stilistici preconfezionati, Enzo si divertiva a ribaltare il tavolo con sopra tutte le carte da gioco. Innovare e sorprendere, il leitmotiv di una carriera baciata dalla genialità e da scelte volutamente non convenzionali e destabilizzanti.

Se col bisturi ha curato il cuore di tutti, indistintamente, con la poesia adagiata su sette note ha invece curato l’anima in maniera selezionata. Quella dei più deboli, dei dimenticati, degli emarginati, degli ultimi, di chi, più che nel paradiso della Milano da bere, è rimasto impantanato ai piedi del boom quale anticamera dell’inferno. Gli Eroi cantati con garra charrua e voce indistinguibile dall’istrionico Jannacci, uomini e donne meritori finalmente di una voce, sono dunque i ‘barboni’, quelli con le scarpe da tennis e un sogno d’amore, o gli operai che spendono i loro anni migliori nelle fabbriche, i mariti delle tante ‘Vincenzina’ in attesa fuori dal cancello con il foulard che non si mette più. O, ancora, i più sfortunati di tutti perché finiti nel tunnel della droga, un mondo che sputa quando nasce un fiore. Senza dimenticare, infine, saltimbanchi e chansonnier di talento che non ce l’hanno fatta, perché quanta fatica farsi accettare con le canzoni. Storie di un coraggio purissimo, mentre il mainstream tossico che condiziona il mercato discografico non è in grado di bypassare un ‘I love you’ effimero, stucchevole e impersonale. Precursore, si potrebbe dire, ma solo il giorno in cui qualcuno saprà raccogliere un’eredità che è fardello troppo pesante per spalle comuni.

https://www.youtube.com/watch?v=z-wnrX0oOZk

Con ironia, a volte struggente a volte beffarda, Jannacci ha sublimato la Milano più nobile, quella solidale che – vaffanculo – non c’è più. Quella della nebbia che non si vede a un palmo, delle osterie intrise di fumo con tovaglie a quadri, michetta e salame, delle persone umili ma sanguigne, del vociare in dialetto in Galleria, delle mani che si stringono e delle maniche che si rimboccano. Caleidoscopica cifra stilistica di una città che nelle sue pieghe migliori ha profumato d’uomo e intimità prima che di profitto, quella che Jannacci ha visceralmente amato e di rimando ha fatto sentire un po’ nostra perché desiderosa, tra inevitabili contraddizioni di un mondo che corre, di non lasciare indietro nessuno.

Gli esordi sono ontologicamente leggenda: il fortunato contesto, quello del Santa Tecla, contenitore che è prima genesi poi archetipo del Rock’n’roll milanese, anzi italiano. I suoi compagni di avventura, di quei giorni, in cui molto di ciò che verrà nacque, sono Tony Dallara, Adriano Celentano e Giorgio Gaber, amico fraterno di una vita intera. Per farla breve, come se Maradona, Pelé, Cruyff e Van Basten avessero indossato la stessa casacca nello stesso istante. È un’alba nuova per la musica ma per Jannacci fare arte significa restare in movimento e quindi alla canzone – canzonetta, per dirla alla sua maniera – affianca il teatro cabaret che, in quegli anni, fa rima con Derby, tempio meneghino per la recitazione di qualità. Inevitabile la collisione artistica con il futuro premio Nobel Dario Fo, insieme al quale Jannacci si renderà protagonista di collaborazioni passate direttamente dal pensiero umano alla Storia. Povero Re e povero anche il cavallo, ah beh sì beh. Che nostalgia.

A Sanremo, en passant, Jannacci ci fa poche selezionate comparsate in mezzo secolo di carriera, giusto il tempo di regalare a sé, e a una platea assuefatta al peggio dunque impreparata, pietre miliari quali la già citata ‘Se me lo dicevi prima’, ovvero come sbattere la piaga della droga nel prime time nazionalpopolare, dunque pugno al plesso solare, e ‘La fotografia’ della quale c’è poco da dire se non che essersela persa equivale ad aver gettato alle ortiche un’opportunità straordinaria nonché parte dei nostri anni migliori. Anche l’amico Paolo Rossi, sempre per restare a Milano, poté beneficiare della compagnia di Jannacci sul palco dell’Ariston: si divertirono con ‘I soliti accordi’, salutarono e tornarono a dedicarsi a passatempi migliori. Come un cestista che schiaccia in terzo tempo, volta le spalle alla platea e con passo flemmatico rientra nella metà campo amica.

Bocciato in gioventù dalla Rai, bigotta e ancorata a cliché vecchi già prima di vedere la luce, Jannacci, fiero di aver proposto un pezzo come ‘Il cane coi capelli’ – cercatevelo – alzò le spalle allargando le braccia, indossò il ghigno che fu marchio di fabbrica e ammonì gli inadatti interlocutori dicendo loro: “Non telefonate neanche, pazienza, non fatelo”. Perché, deve aver pensato tra sé e sé con tutta l’autostima dei geni che talvolta si comprendono solo loro, in musica ci vuole orecchio oltre che il pacco intinto dentro a un secchio, prima di spostare l’asticella dell’arte ancora più in alto, in altri e più opportuni lidi. In Rai, un classico, saranno poi costretti da un’abbacinante evidenza a redimersi al limite del tempo massimo e torneranno sui loro passi. Per Enzo, inguaribile ottimista, nulla più che il balzello da pagare all’anticonformismo di qualità eretto a dogma. Del resto a parlare con i limoni era fin troppo abituato.

Il resto è storia da libri di scuola. Dopo una lunga malattia, in una mattina di primavera solo apparentemente uguale alle mille altre che l’hanno preceduta, il settantasettenne Jannacci ci lasciava al nostro destino, un po’ più soli. Non ce lo aspettavamo, noi romantici il giusto cresciuti nella convinzione che gli idoli potessero godere del privilegio dell’eternità alla stregua dei figli del dio Chronos. E invece sono già passati sette anni. Riproporre oggi il suo lavoro, vecchio cinque decadi ma solo per anagrafica, non è un esercizio banale, oltre che segnale di intelligenza applicata alla musica. Significa riportare valori troppo spesso relegati ai margini del (soprav)vivere quotidiano, quali generosità, altruismo e sensibilità, al centro delle nostre giornate. Perché, se la vita continua a essere un po’ bella e un po’ puttana, già che basta una sottana a rovinare la festa, è anche grazie a chi, come Enzo, ci ha insegnato a non dare mai nulla per scontato. Sorridendo, possibilmente, e senza uscire fuori tempo.

Teo Parini

Questo articolo fa parte dell'archivio di Ticino Notizie e potrebbe risultare obsoleto.

■ Prima Pagina di Oggi