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Due ore e mezza di introspezione, amicizia e montagna: Le otto montagne- di Teo Parini

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Tratto dall’omonimo romanzo di Paolo Cognetti, il film “Le otto montagne”, diretto da Felix van Groeningen e Charlotte Vandermeersch e con la partecipazione di Luca Marinelli e Alessandro Borghi, in questi giorni è nelle sale italiane.
Qui non si vendono tappeti: la pellicola è infinita, due ore e trenta la sua durata, occorre una certa predisposizione al sacrificio perché la storia non è tipicamente di quelle alla mano e chi dichiara di non aver avuto, in almeno un frangente, l’intenzione di uscire anzitempo sta mentendo. Detto ciò, chi è rimasto inchiodato alla poltrona, anche nei momenti di maggior rallentamento della narrazione, rischia di aver fatto una delle cose migliori dell’intero 2023 già a gennaio. Perché un lavoro cinematografico del genere vale bene una (lunga) messa.

Il titolo, intanto, è preso in prestito da un’antica leggenda nepalese, incantevole angolo di pianeta nel quale è stato girato in parte il film, che racconta dell’esistenza di una montagna altissima posizionata proprio al centro del mondo con intorno otto mari e altrettante montagne. Pietro, indissolubilmente legato all’amico Bruno prematuramente scomparso, alla fine di una storia che è l’esaltazione dell’amicizia e dell’idea che più romantica non si può di un rifugio sicuro – che, en passant, da qualche parte c’è per tutti – quali cardini di sopravvivenza ai tormenti della quotidianità, riuscirà a percepire l’immortalità del loro monte altissimo, quello che li ha fatti incontrare, poi crescere, poi perdersi per ritrovarsi e, infine, completarsi, prima di un epilogo di inaspettato distacco. Perché l’amicizia è un lungo filo rosso che percorre traiettorie stranissime e poi torna a chiudere il suo cerchio sempre nel punto di partenza.
Il film, decisamente metafora di vita, è un lungo e scosceso sentiero di montagna, da percorrere proprio come si affronta quel particolare tipo di fatica. Con i giusti tempi, quelli della natura; senza potersi permettere di strafare; con la calma a gestire il sopraggiungente affanno.
I due protagonisti, in quest’ottica, camminano sulla stessa strada di ghiaccio e pietre per due volte, in parallelo. Una, su e giù per gli otto monti, in senso fisico che vuol dire sudore e libertà. Un’altra, scavando tra le pieghe della propria coscienza, gli fa percorrere le dinamiche di rapporti familiari che hanno la caratteristica di apparire antitetici salvo convergere nelle stesse identiche mancanze, quelle paterne. Cosa resta, si domanda Pietro prima dei titoli di coda, di un cammino che è profonda conoscenza reciproca e, insieme, ermetica chiusura verso l’esterno, ora che dei due n’è rimasto uno solo? A parte le otto montagne, s’intende.
La trama, qua e là, sfiora un altro grande tema, l’alienazione della sopravvivenza in città, tutta isteria, rincorse forsennate e strombazzate di clacson. Pietro è proprio da lì che proviene e il destino lo porta a trovare tra i monti, dove invece Bruno nasce e sviluppa un pragmatismo montagnino che ha il pregio di mantenersi coerente nella buona e nell’avversa sorte, proprio il rifugio sicuro di cui sopra. L’insegnamento che sarebbe delittuoso non portarsi a casa dal cinema, allora, è che la casa non è mai un valore prettamente anagrafico, se non per un modesto e avvilente concetto di possesso. La casa, diversamente, è quel posto nel mondo che fa battere il cuore al solo pensiero del ritorno. Una sensazione che, se condivisa in un rapporto di solida amicizia, trasforma una fuga, qualunque ne sia il motivo, in un lasciapassare per la felicità. È la regola del filo rosso, che si districa sempre quando più ne abbiamo bisogno.
Teo Parini

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