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Danilo Di Luca, il ciclismo e le ‘bestie da vittoria’- di Teo Parini

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Di Luca D. e Carati A., Bestie da vittoria, Ed. Piemme, 2017

“La verità è che nessuno di noi pensa di sbagliare, facciamo tutto quello che un ciclista professionista deve fare. La verità è che tutti si dopano e che tutti lo rifarebbero, la verità per la società civile è inaccettabile. Come si fa a dire la verità e a essere credibile? Bisognerebbe accettare l’inaccettabile.”
Bestie da vittoria, un autoritratto di Danilo Di Luca titolato in maniera superlativa e scritto in compartecipazione con Alessandra Carati, è in alternativa due cose, oltre che un libro meritorio di interesse benché non contribuisca a confutare la regola che vuole le biografie sportive troppo spesso ontologicamente insipide. Incarna, dunque, l’elogio dell’ovvietà ma che fa riflettere, per chi rifiuta di cedere la sovranità del proprio pensiero alla tirannide del politicamente (s)corretto applicato allo sport e magari, en passant, due scalciate alle pedivelle in vita sua le ha pure assestate, oppure un illogico precipizio di stupore misto a indignazione. Sia per chi sa come vanno certe cose ma finge di non sapere, sia per chi, al contrario, non sa e dunque non si capisce in quale ingenuo mondo stia vivendo.
Infatti il racconto si articola intorno a tre capisaldi piuttosto gettonati nella narrazione di settore: l’amore originario del protagonista per lo sport, il ciclismo nello specifico, come palestra di vita; la determinazione feroce dell’atleta nel cercare di mettere la ruota davanti a quella di tutti gli altri; il doping quale propulsore insito in un sistema inquinato dal profitto prima ancora che coadiuvante dei quadricipiti.
Consuetudine moralmente poco edificante, forse, che però sta all’agone esacerbato come la grammatica alla lingua italiana: inscindibile. E se ciò non è mai una giustificazione tombale tout court, un’eventualità necessaria, per chi accetta di declassare lo sport da arte ludica a mestiere quindi business, lo è di sicuro.
A rendere comunque coinvolgente una lettura che per ovvi motivi non si prefigge la divulgazione di una stucchevole morale da buoni contro cattivi è pertanto il “come” piuttosto che il “cosa”, perché solo chi non ha un orticello da preservare – è il caso palese del protagonista di queste pagine che a definire crude si sbaglia per difetto – ha facoltà di raccontare con dovizia di particolari un mondo, quello della bicicletta, le cui dinamiche al contorno rispecchiano la peggiore natura umana e i suoi rapporti torbidi con soldi e potere. Il target dell’opera, allora, non è dimostrare la diffusione capillare del doping, un segreto di Pulcinella fin dagli albori della competizione, ma il modo in cui quest’ultimo diventa routine per l’uomo: un po’ atleta, un po’ robot e un po’ farmacista di sé stesso. Una storia di ordinarietà malata nell’etica e nella salute destinata a concludersi come tante altre similari che l’hanno preceduta.
L’epilogo quasi standardizzato della parabola umana prevede ancora una volta la presentazione del conto all’atleta, nel momento in cui l’establishment – che va dagli sponsor, ai dottori, ai manager, ai procuratori fino alla federazione – perde interesse ad assicurare l’impunità all’ormai ex protetto. Una questione di tempo, oltre che di euro, e anche Di Luca, idolatrato dalla folla e insieme spremuto dal meccanismo, finisce per cadere senza paracadute nella polvere. Additato alla stregua di un criminale da aficionados bigotti e, ciò che è peggio, dagli stessi soggetti sul perimetro che dopo aver lucrato sulla sua pelle provano a ricostruirsi una verginità mai appartenuta. Quindi, se è pacifica l’impossibilita per un uomo di eccellere nella disciplina eroica che fu di Bartali e Coppi a pane e acqua – un’espressione ricorrente nelle memorie degli autori – in uno sport sospinto da burattinai nemmeno troppo invisibili al limite del sadismo quello che il libro va a sviscerare è, appunto, come ciascun tassello della filiera ciclismo si rapporti senza troppi fronzoli con il corridore alla ricerca spasmodica del successo che tenga a galla la volubile baracca. E come, di rimando il corridore sia indotto a snaturare sé stesso come un automa che fa perché deve, sacrificando sull’altare degli interessi personali, pochi, e della casta, molti, lo spirito impresso nei cromosomi di uno sport meraviglioso impunemente deturpato dall’avidità umana.
È innegabile: farsi raccontare senza filtri di come l’accettazione acritica della farmacologia sia condizione necessaria, seppure non sufficiente, allo status di campione, al pari di stringere gli scarpini, allacciare il caschetto, appiccicare il numero sulla schiena e spendersi di fatica, è ogni volta paradigmatico e foriero di emozioni contrastanti. Un libro, in definitiva, che, se poco aggiunge a quanto preferiremmo non avere mai saputo, ha però il merito di fare emergere che dietro alla corazza eretta per autodifesa dall’atleta, tanto da apparire erroneamente impermeabile alle storture, c’è sempre un uomo con pregi, difetti, debolezze e contraddizioni. Tutt’intorno un contesto nel quale lo sport si misura in plusvalore, un tritacarne, così spietato da obbligare a contare fino a mille prima di abbozzare una qualsivoglia forma di giudizio sulla persona, Di Luca incluso. Del resto di tribunali da poltrona non se ne avverte mai il bisogno. 
Teo Parini

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