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CulturaIdentità? Tradizione e pensiero anti globalista

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Dal 1 febbraio, #CulturaIdentità si trova (anche) in edicola. Che giornale è? Quali battaglie e su quali trincee intende battersi?

“#CulturaIdentità è innanzitutto un percorso nato un anno fa, in occasione di un raduno di intellettuali, giornalisti, artisti, operatori culturali, tenutosi a Milano, al Teatro Manzoni, decisi a rispondere all’appello lanciato da Edoardo Sylos Labini, Alessandro Giuli e Angelo Crespi, che avevano redatto un Manifesto di idee e parole d’ordine rivolte a quanti fossero disponibili ad impegnarsi nella lotta contro il pensiero unico globalista, la dittatura del politicamente corretto, l’egemonia culturale radical e laicista. Dopo questo primo momento di confronto si è deciso di andare avanti, nella consapevolezza che questo è un paese che sta cambiando, in cui la Storia e la circolazione delle élites si sono rimesse in moto e che necessita di individuare una direzione a questa volontà di trasformazione, che non sia la semplice negazione dell’esistente senza una prospettiva. Il nostro orizzonte è quello di chi crede che esiste un’anima profonda dei popoli italici, che va fatta riemergere per renderne possibile il rifiorire dell’identità. In questa ottica Cultura e Identità sono un tutt’uno inscindibile che deve passare dall’essere senso comune, sentimento di appartenenza alla propria terra e al suo retaggio di tradizioni, in nuovo paradigma in grado di contendere spazi di egemonia sul terreno della battaglia delle idee. Affinché ciò fosse possibile era indispensabile dotarsi di uno strumento grazie al quale alimentare incontri, confronti e riflessioni. Questo magazine mensile che esce in edicola ogni primo venerdì del mese, distribuito gratuitamente insieme a Il Giornale, è il nostro piccolo dono alla “buona battaglia”, che poi è quella di tanti altri amici, tra i quali gli animatori di “Barbadillo” rappresentano da tempo una delle punte più avanzate. Ora l’obiettivo deve essere fare sistema tutti insieme, costruire massa critica, per avere la forza di coordinarsi e far sentire la propria voce sui giornali, in televisione, nelle accademie, come nei teatri, nelle gallerie d’arte o nelle sale da concerto. In tanti, nella società civile come nel mondo della politica, avvertono l’esigenza di un vuoto da colmare”.

Da dove nasce l’esigenza, ai tempi dell’onnipervasività e dell’immediatezza del web, di pensare a un mensile di carta che impone al lettore riflessioni lunghe, lontane mille miglia dagli schemi del pensiero corto che pur governa il dibattito pubblico nazionale?

“È vero, la carta oggi sembra avere un sapore antico, per non dire antiquato. Eppure resta un biglietto da visita insostituibile se si vuole dare ai propri ragionamenti il giusto peso e la necessaria credibilità. L’informazione veloce va bene per la propaganda e per “influenzare” il consenso e i processi di identificazione in una “parte” piuttosto che in un’altra. Ma se si tratta di fornire argomenti, strumenti, codici alla politica per gestire e amministrare o se addirittura si ha l’ambizione di costruire paradigmi culturali alternativi a quelli dominanti, ecco che il “pensiero lungo” diventa una dimensione irrinunciabile. Esso garantisce profondità e durata, quando riesce ad imporsi, persino in un tempo in cui tutto appare così fluido. E poi la verità è che il nichilismo imperante si combatte anche con il “peso” della carta, anche se bisogna avere la lucidità di dotarsi di tutti gli strumenti che oggi consentono la comunicazione e la circolazione delle idee. Non a caso tra pochi giorni sarà pronto anche il nuovo sito di #CulturaIdentità, grazie al quale sara’ possibile declinare anche nell’immediatezza le nostre posizioni”.

#CulturaIdentità si fregia del tricolore eppure dedica tantissimo spazio ai territori.  Oggi che le piccole identità fanno quasi vacillarne l’idea, ponendosi come alternativa, anche a destra, come si fa a tornare a tessere i fili di un discorso che voglia essere nazionale?

“È necessario innanzitutto comprendere che il Genio Italico si compone in un mosaico fatto da migliaia di piccole e grandi appartenenze comunitarie, profondamente radicate nello spirito dei nostri popoli. La Heimat, la patria originaria, la “Terra mia”, per parafrasare una canzone di Pino Daniele (quello degli anni giovanili e identitari), è la fonte da cui si acquisisce quella linfa che ci fa riconoscere coloro che ci sono più affini nello spazio e nello spirito e insieme ai quali possiamo “fare Nazione”. Prescinderne è impossibile, standardizza la nostra cultura e, inevitabilmente, la impoverisce. La Rivoluzione Conservatrice italiana, quella dei Prezzolini, dei Longanesi, degli Ennio Flaiano, di Julius Evola (in modo diverso) era consapevole di questo e ha sempre riconosciuto la straordinaria dignità culturale della nostra dimensione “strapaesana”, quella di cui lo stesso Pier Paolo Pasolini, con l’avanzare dopo il Sessantotto del consumismo, dell’americanizzazione, dell’ideologia dell’emancipazione e della modernizzazione acritica e forzata, denunciava con forza la possibile scomparsa. Effettivamente di quell’Italia contadina, per nulla bucolica, ma ricca di riti e miti, come di spirito di sacrificio e di sopportazione, oltre che di dedizione alla famiglia, al lavoro, a Dio e ai Santi, pregna tanto di coraggio, quanto di senso del Bello, come dimostrano le mille torri e i mille campanili che adornano la nostra Penisola, molto è andato perduto… Eppure sui territori, nella provincia italiana, ancora resistono quelle virtù secolari che consentono all’Italia di essere un Grande Paese e che, alla fine, al di là delle tendenze che si respirano nelle principali città, determinano il profilo antropologico, sociale, politico della Nazione. Questa “Italia profonda”, che le élites in modo spregiativo spesso liquidano come “nazionalpopolare”, sinonimo di “cultura bassa”, merita di avere voce: una voce alta, senza complessi di inferiorita’ nei confronti del sistema mainstream. E’ questo uno degli obiettivi di #CulturaIdentità”.

Negazione, globalizzazione e l’istituzione di mille tabù. Quella culturale è davvero (solo) una guerra di parole?

“Le parole sono importanti, saperle usare, conoscerle, consente di costruire sistemi di idee e di conseguenza mondi, scale assiologiche, perfino paradigmi scientifici e di azione pratica. Ma quella culturale non è solo una guerra di parole. E’ anche una battaglia di forme, anzi una “battaglia per la riconquista della forma”: il solipsismo e il “nientismo” del nostro tempo, la sua incapacità di fornire certezze all’esistenza, appartenenze stabili e un pensiero forte e robusto che dia un senso alto e nobile alla vita, è perfettamente rappresentato dalla polverizzazione delle forme artistiche, si tratti di letteratura, musica, pittura, scultura o architettura. Tutto risulta svuotato, l’arte diventa performance che si esaurisce nell’istante in cui si consuma senza porsi nemmeno il problema della durata e della riconoscibilità nel tempo lungo, il polo dialettico alternativo al caos e al disordine non è più l’armonia e la gerarchia, al massimo lo è il valore economico che l’establishment artistico commerciale globale decide di dare a ciò che viene prodotto da chi già ne fa parte… Allora la battaglia per la Bellezza diventa davvero una battaglia politica, ricreare un ordine, gradevole e affascinante, è la migliore risposta al degrado della post modernità. La gente comune percepisce questa esigenza e la manifesta con un’insofferenza sempre meno nascosta nei confronti di operazioni artistico culturali che si poggiano esclusivamente su forzati e incomprensibili arzigogoli filosofici, che pretendono di dare dignità culturale agli epigoni di quelle che un tempo furono vitalistiche avanguardie (futurismo, dadaismo, cubismo, ecc) e che oggi vengono reiterate in modo asfittico e superficiale. La risposta a tutto questo non è un banale ritorno al classicismo, ma appunto la riscoperta dell’identità”.

Nazione, territorio. Identità e cultura. E, ancora, Tradizione. Quale è la via da seguire per restituire centralità e significato a idee così forti?

“Quella indicata dal Samurai d’Occidente Dominique Venner nel suo testamento spirituale per dare credibilità al quale, nel tentativo di contrastare la dissoluzione dell’anima europea, egli ha donato a chi ha orecchi per ascoltarlo la propria vita: “la Tradizione non è il passato; essa è ciò che non passa mai”. Per farla propria veramente, insieme ai suoi principi forti, c’è bisogno di un faticoso esercizio quotidiano: essa va infatti conquistata, interiorizzata e resa viva nelle modalità adeguate al tempo che ci è stato destinato”.

Da @barbadilloit

Di Giovanni Vasso

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