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Dall'archivio:

Cronaca di un giorno che fugge. Il dolore di un’anziana madre- di Emanuele Torreggiani

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Attenzione: questo articolo fa parte dell'archivio di Ticino Notizie.

Potrebbe contenere informazioni obsolete o visioni da contestualizzare rispetto alla data di pubblicazione.

 

Alla Fiat Punto, un’auto che ha oltrepassato i vent’anni per quanto riluca ancora del genuino splendore, un ladruncolo ha manomesso il quadro dell’accensione ed appena la vecchia signora, che cammina a fatica, ha strillato è fuggito via come si scappa da un tradimento, un’onta, lasciando nell’abitacolo un cacciavite a stella. Quindi il via vai dei passanti che si fermano sino all’arrivo della polizia municipale. Sbrigate le burocrazie la donna vorrebbe rientrare alla sua dimora, ha un marito di novantuno anni. L’auto necessita di interventi per il ripristino del sistema di avviamento. I vigili, per altro dispiaciuti, davvero non possono accompagnarla, sono l’unica pattuglia in servizio. L’accompagno io, appena rientrato da una pratica medica semisodomita, che ho guardato la scena, la vita è un teatro, dalla soglia del cancello. Dico alla signora di accomodarsi giusto l’attimo di una doccia per togliermi di dosso l’odore di ospedale, che probabilmente annuso solo io. Abita in un paese dei dipressi, e quando sale in auto chiede permesso. Indossa un tailleur marrone di lana leggera ed una camicetta di seta rammendata più volte all’orlatura del collo con cura preziosa. Dal polso sinistro le pencola un bracciale sottile da cui pende una sterlina d’oro. Posa in grembo una cartella di pelle incartapecorita gonfia di documenti che riguardano il suo cuore stanco. Dice che lei non ci capisce più niente con tutte le tessere, i pin da ricordare, l’elettronica, dice, degli avvisi per telefono ai quali lei non sa rispondere. E così ha perso il suo turno di visita, il prossimo sarebbe tra un anno ma lei non se la sente di aspettare, che fa fatica a respirare e si sente sempre stanca, quindi quando va a casa parlerà con suo marito e faranno due conti per vedere se riescono a far saltare fuori i centocinquanta euro della visita a pagamento per la quale, l’italiano della vecchia è corretto, l’attesa è inesistente.

Mentre guido verso il paese dove c’è un ristorante che ho frequentato, quasi quotidianamente per decenni, rivedo la sera in cui ordinai un Cynar e mia moglie mi guardò, velata di un pianto per me ancora impossibile, sbigottita. Era la prima sera che mio padre viveva da morto ancora insepolto. In suo onore, le dissi. E così dico alla signora che conosco bene il posto e faccio il nome del ristorante e lei mi dice che fornisce al locale i fiori di zucca per la frittura. Poi aggiunge che non è per nulla un agricoltore. E lo dice tutto d’un fiato senza punteggiatura orale. Viene da Milano. Ha venduto tutto quello che avevano per comperare un piccolo appezzamento con rustico. L’ha fatto per salvare suo figlio dal gorgo, così testualmente, della droga. L’ha fatto nel 1990. E quest’anno sono più gli anni che il suo ragazzo è morto di quelli che ha vissuto. Fermi ad un semaforo mi sfiora il braccio con la sua piccola mano, vuole che la guardi in viso. Mi dice che sta vivendo la vita di suo figlio. Dice testualmente così, io sto vivendo la sua vita. E continuo ad andare avanti finché mi rimane da vivere. Volevo portarlo via da Milano, dai sui giri, per fargli vivere la vita vera della terra, delle stagioni, della neve, della pioggia, del sole, delle gemme, della natura… ma mi è morto di infezione, lo dice con il riserbo profondo della lingua che rifiuta l’acronimo in sigla. Mi fermo davanti all’ingresso del piccolo podere che pare abbandonato. Dice che quest’anno non ce la fatta col sole così feroce e ha lasciato andare al brucio tutte il campo. Dice che non le importa. Non le importa più nulla da quando il suo unico figlio è morto da ventisette anni. Dice che non ama più niente, soltanto trascina i suoi giorni.

Emanuele Torreggiani

Questo articolo fa parte dell'archivio di Ticino Notizie e potrebbe risultare obsoleto.

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