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Dall'archivio:

Corto Maltese, eroe senza tempo

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Al tramonto il mare si tinge di rosso, e la goletta, la goletta va, solcando le onde…

“The ship was cheered, the harbour cleared,

Merilly did we drop

Below the kirk, below the hill,

Below the lighthouse top.

 

The Sun came up upon the left,

Out of the sea came he!

And the shone bright, and on the right

Went down into the sea.

 

Higher and higher every day,

Till over the mast at noon…”

Il marinaio osserva coi suoi occhi scuri il mare, i flutti contro le fiancate, mentre la goletta, la goletta va solcando le onde tra le grida dei gabbiani e i canti degli uomini: dietro a sé solo una striscia di schiuma azzurrina. Il verde dell’isola si fa lontano e, quand’è notte, ogni luce, ogni barlume a poco a poco si spegne. E tutto è mare, tutto il vento, il vento caldo dei mari del sud. Tutto è mare, e al mare torna l’eterno marinaio. Solo la stella del sud, la croce immutabile nei cieli, ancora risplende per il vero marinaio…

Questi è Corto Maltese, l’eroe (anche se certo lui non avrebbe amato questa definizione) nato dalla penna di Hugo Pratt sul finire degli anni ’60. Quello di Pratt non era più tempo d’eroi. Erano giorni di miracolo economico e di piena ricostruzione, ma già i fantasmi degli anni di piombo si agitavano foschi al tramonto, e, presto, all’ottimismo, avrebbero fatto seguito la paura, lo sconforto, la tragedia. No, non erano tempi d’eroi, almeno non per l’Occidente, e così anche quelli in cui si trovò ad agire l’eterno marinaio. Non vi sono eserciti di gentiluomini pronti a scambiarsi un saluto cortese prima di dare inizio alla carneficina, gli stendardi tacciono e più non garriscono al vento, anche l’ultima pietra tombale è stata eretta sulla cavalleria: requiescat in pace.

“Oggi non esiste nessuno per cui lottare, ma soltanto qualcuno contro cui lottare”, avrebbe scritto nei suoi escolios Nicolás Gómez Dávila, il solitario profeta, cieco cantore dei tempi passati e di quelli a venire: egli non sbagliava. Tra i gas, le granate, gli shrapnels che s’infrangono, sinistri bagliori sull’umida terra, non v’è posto né per Dio né per l’individuo, né tanto meno per il soldato gentiluomo. Sono le masse a levarsi dal fango in una lotta epica e a trionfare, protagoniste nelle trincee così come nelle officine e nelle piazze. Solo poche figure d’eccezione hanno la possibilità di emergere dall’eroismo indistinto delle masse ed entrare nel mito, nella leggenda: Lawrence d’Arabia, così come il barone rosso e il capitano Luckner che, con la sua ultima ciurma corsara, batteva le acque del Pacifico. O, perché no?, Victor Serge, l’apostolo errante e un po’ bohémien del marxismo dalla Spagna al Messico, ed Ernst Jünger, l’eterno ribelle.

E Corto Maltese, il marinaio senza patria né padrone, nato laddove la cultura inglese e quella levantina si fondono nel Mediterraneo, è uno di loro. Ultimo gentiluomo, ultimo soldato di fortuna, marinaio e comandante, spia, avventuriero e giustiziere, egli segue la stella polare del suo destino incerto, costantemente sospeso tra un aristocratico individualismo e la pulsione di un profondo senso di giustizia. E così, Corto segue il suo astro dal Pacifico e dalla mitica Escondida, l’isola del “Monaco”, alle paludi di Cayenna, dalle bianche pietre della laguna veneziana (…la porta d’Oriente…) alle steppe innevate dell’Asia profonda. In fuga dallo squallore di trincee insanguinate e di grigie metropoli, e dai rigidi, ipocriti clichè della società borghese, il marinaio posa il suo sguardo limpido su terre che il dio del progresso non ha ancora violato. Il suo non è un mondo di modernissime armi di guerra e distruzione, né di sporche manovre finanziarie; suoi compagni non sono né il capo di stato maggiore né lo speculatore di borsa. No, Corto cerca una pulsione di vita autentica e di libertà che il presente non può più dargli. Ed ecco che si svela il suo costante viaggiare di avventura in avventura, inseguendo sogni, miti, leggende di tesori perduti che sembrano appartenere ad un passato ormai scomparso…

Corto viaggia, scorre i mari, il vento gli scarmiglia i capelli e il fresco delle notti sotto la luna gli accarezza il volto. Non vi sono più re o bandiere per le quali morire, né ideologie, ultime ipocrite foglie di fico per la decadenza del mondo borghese, dietro cui trincerarsi. V’è solo la vita, e i sentimenti più autentici: il vile e il generoso, il ruffiano e l’eroe convivono in Corto e nei suoi compagni di strada. Essi sono figure talvolta grandiose e magnanime, talvolta umili e meschine, più spesso l’una e l’altra cosa, ma sempre vive, sempre autentiche: cuori pulsanti nel male e nel bene, lontani da una realtà sempre più piatta e disumanizzante. Tali sono Cush, il guerriero dancalo compagno di mille avventure, e Rasputin, disertore zarista speculare nei tratti e nel nome di quel calunniato monaco siberiano dagli occhi fiammeggianti e dalla voce tagliente, che sola bastava, “…narrando storie siberiane d’animali della foresta, a fermare le emorragie dello zarevič emofiliaco”[2]. E quella straordinaria figura di Ungern Khan, il barone baltico emulo di Tamerlano, il diavolo zoppo che “a Delhi fece massacrare centomila prigionieri e che a Baghdad fece erigere un obelisco con ottantamila teste”. Come Ungern anche Corto è costantemente attratto dall’idea di forze arcane, superiori ai meccanismi del potere e della storia, ineffabili e misteriose, che agiscono sui destini. Nella superba Venezia degli anni ’30 corre, tra massoni e squadristi, tra rabbini e oscuri fantasmi in foggia ottomana, in cerca del leggendario amuleto di Baron Corvo (“…la clavicola di Re Salomone…”), e, come in sogno, sempre dai tetti e dalle logge della Serenissima (“…Corte Sconta detta Arcana…”) ai misteri delle sette cinesi fino ad assaporare appena, sotto i cieli dell’estremo Oriente, la forza mistica della vecchia Russia. Un sogno, una corsa per i tetti o sui vagoni di un treno in movimento nella pianura siberiana: Corto vola fuori della storia e del tempo dei comuni mortali, ed è in questo spazio quasi iperuranio che incontra altri viaggiatori, idealisti e delusi, che mai hanno potuto scorgere le torri celesti del palazzo di Kublai Khan, anch’esso sogno, e nient’altro che sogno, mai realtà. E’ infatti la poesia di Coleridge in onore del sovrano mongolo che Corto e Ungern ricordano in una notte di neve e di fuoco sul confine manciuriano:

“Nello Xanadu alza Kubla Khan

Dimora di delizie un duomo dove Alph,

Il fiume sacro, scorre per caverne vietate all’uomo

A un mare senza sole.

…Dieci miglia di fertile terra

Con mura e torri furono recinte:

E c’era nel giardino un luccichio di rivi

E l’albero d’incenso era fiorito,

E v’erano foreste antiche come i clivi

Che abbracciavano il verde agro assolato…”

Ma se per Ungern, perduto nella sua epica mistica di sangue e conquista, non vi sarà altra pace, altro destino che non la morte davanti al plotone d’esecuzione, rinnegato dai suoi ufficiali, dimenticato da quel mondo civile che aveva sprezzato, Corto potrà continuare il suo viaggio di porto in porto, di mare in mare, spiaggia in spiaggia. Il sogno si spezza, il tesoro giace in fondo ad un lago o si scopre nient’altro che polvere, ma l’eterno marinaio non cede: se cadono gli ideali e le speranze, non muore però la calda, umile umanità votata alla morte di chi lo circonda e si stringe intorno a lui. Ultimo gentiluomo di ventura, un po’ Byron e un po’ Humphrey Bogart di Casablanca e di Acque del Sud, grande e meschino, avventuriero romantico e sprovveduto dinnanzi alle svolte del destino, il suo è davvero un voyage au bout de la nuit, al limite dei tempi e della notte.

E, cullato dalle onde tiepide del Pacifico, chiude gli occhi alla notte il vecchio marinaio…

“Come la bianca ala dell’albatros sul monotono respiro del Pacifico, così, vagabonda per vagare, va la vela del vero marinaio…”

@barbadilloit

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