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Coronavirus, il 60% dei malati guarisce con casco Cpap

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MILANO – Ci sono tre aziende in Europa che producono caschi Cpap. Si chiamano Intersurgical, Dimar e Harol e hanno sede tutte in Italia. Del resto è nata qui negli anni 90 da un team di medici (fra cui luminari come Damia, Foti, Pesenti e Antonelli), l’intuizione di sviluppare caschi impiegati nei trattamenti iperbarici per subacquei, in dispositivi per aiutare i pazienti con difficoltà respiratorie. Così come è di un italiano, il luminare Luciano Gattinoni, l’intuizione di trattare i pazienti di rianimazione con problemi polmonari in posizione prona, tecnica poi adottata con successo in tutto il mondo anche per i pazienti Covid-19.

I caschi C-Pap (Continuous Positive Airway Pressure) sono diventati un presidio fondamentale nella lotta contro il Coronavirus perché aiutano gli alveoli a funzionare e a ossigenare il sangue, “spingendo” nei polmoni ossigeno con una pressione positiva e regolabile. A differenza delle maschere, i caschi generano un flusso e una pressione di ossigeno maggiore e non lasciano piaghe sulla faccia, soprattutto in un utilizzo prolungato. “I dati ci dicono che il casco è un’applicazione ottimale nella terapia C-Pap e molto efficace nel trattamento del Covid-19. Il 60% dei pazienti ricoverati da noi in sub intensiva supera la fase acuta con i caschi. Solo un 10-15% ha bisogno di essere sedato, intubato e portato in rianimazione, dove la mortalità a un mese è del 18/20%”, afferma Francesco Blasi Direttore di Pneumologia e Cardiologia (ad interim) al Policlinico e professore di Malattie dell’apparato respiratorio all’Università di Milano.
Negli ospedali lombardi si è capita subito l’importanza della terapia C-pap con i caschi e infatti i posti letto nelle terapie sub-intensive sono triplicati, se non addirittura quadruplicati dall’inizio dell’emergenza arrivando a quasi 3.500. “Noi abbiamo praticamente decuplicato i posti di terapia sub-intensiva dove tutti i pazienti indossano i caschi perché arrivano ipossici (in carenza di ossigeno ndr) e hanno bisogno del massimo ossigeno possibile. Al momento non abbiamo avuto problemi con le forniture di caschi, ne abbiamo ricevuti da tutte e tre le aziende che li producono, ma potrebbero diventare un problema”, afferma Blasi.
Al Policlinico oggi sono disponibili 310 posti di terapia intensiva e sub intensiva per pazienti Covid-19, mentre prima dell’emergenza i posti erano 22, tutti di terapia intensiva.
Quanto ai timori sull’approvvigionamento di caschi, Blasi potrebbe avere ragione. Ad oggi, infatti nonostante il divieto alle esportazioni, Intersurgical, Dimar e Harol fanno fatica a stare dietro agli ordini, che sono quintuplicati nell’ultimo mese. Solo Consip, su richiesta della Protezione Civile, ha ordinato 50mila caschi (metà della variante Niv) ma è riuscita a garantirsene solo 11mila con consegne scaglionate, mentre il bando per un secondo lotto da 44 mila è andato deserto. Dal sito di Analisi distribuzione prodotti della Protezione Civile risulta che alla Regione Lombardia ne sono stati consegnati 950. Un pò meglio è andata all’Emilia Romagna che he ha ricevuti 1.500, ma il record spetta al Piemonte con 2.500, mentre le altre Regioni sono ancora in attesa o ne hanno ricevuti poche decine (spiccano i 200 consegnati in Veneto)

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