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Ciclismo: don Alejandro, ultimo tango (e giro di milonga)- di Teo Parini

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Per sempre non sono solo i diamanti, lo sono anche i campioni. In senso lato, la stessa identica cosa: preziosi e immutabili entrambi. Se è vero che c’è una fine per tutto, così capita che ventennali storie d’amore debbano finire, è vero altresì che il lascito che riempie i cassettini della memoria è, appunto, per sempre. Un tatuaggio che racconta a colori dei nostri compagni di viaggio incontrati sul percorso chiamato vita.

Alejandro Valverde Belmonte – quarantadue anni di Las Lumbreras de Monteagudo, Spagna sud-orientale – è uno di quelli e ci ha fatto sapere, per la verità già da qualche tempo, che può bastare così. Il Giro di Lombardia che si disputerà il prossimo sabato, infatti, sarà la sua ultima ballata da professionista; lettera z di un alfabeto intagliato su un nastro d’asfalto lungo due decadi e un’infinità di chilometri scanditi da quadricipiti inesausti. L’autunno per eccellenza del pedale, la monumentale corsa delle foglie morte, che celebra l’autunno di un gigante dello sport che fu di Fausto Coppi. Che meraviglia.
Alejandro è un uomo a cui difficilmente si può non volere bene, con quella faccia demodé perennemente solcata dalla fatica che ispira tutta l’empatia di questo mondo. Genuino e modesto per genetica, tifosi e colleghi giovani e meno giovani paradossalmente si rivolgono a lui, tra ammirazione e riverenza, con il titolo inequivocabile di Embatido e non è affatto difficile capire il motivo: quando ha fissato un target ha quasi sempre vinto lui. Schivo con garbo e poco incline all’autocelebrazione, c’è da scommettere che un’etichetta così ingombrante, per uno che l’eccellenza sportiva l’ha costruita con passione e abnegazione certosina, a distanza di anni lo faccia ancora arrossire, quasi incredulo dinanzi a un credito planetario che invece gli si cuce addosso come un abito da sartoria. È l’umiltà dei predestinati forgiati dal pane duro del sudore.
Mentre il caleidoscopico mondo del pedale non si ferma e rinnova sé stesso introducendo nel palinsesto atleti fenomenali con l’età di chi potrebbe essergli figlio, Valverde, fino all’ultima flamme rouge, ha continuato imperterrito a mettere la ruota della sua bicicletta nel mucchio di quelle che si giocano il successo. Un miracolo di longevità che appende gli scarpini al chiodo nello stesso anno in cui il quasi coetaneo Roger Federer, sempre a proposito di talento epocale, ha fatto lo stesso con la racchetta, in un virtuale arrivo in parata di due degli atleti migliori che lo sport abbia mai saputo celebrare.
I numeri non raccontano che un pezzettino delle gesta di un campione che è invece puzzle da migliaia di tessere, ma in ogni caso, tanto per rendere l’idea della portata oggettiva del personaggio, sono più di centotrenta i successi del murciano la cui stanza dei trofei consta, tra l’altro, di un titolo mondiale, quattro Liegi-Bastogne-Liegi, cinque Freccia Vallone (record assoluto), due Classica di San Sebastian, una Vuelta di Spagna e sedici tappe nei tre Grandi Giri, chiusi in almeno un’occasione sul podio finale. Laureato all’Università della tattica con specializzazione per l’attendismo scientifico che è sinonimo di competenza ciclistica, Valverde ha sublimato il ruolo di corridore per tutte le stagioni e per tutte le orografie in un’epoca imbruttita dalla specializzazione selettiva accentuata e le comparsate col contagocce. Incurante dell’usura, il suo mantra è stato quello della continuità, ovvero sempre sugli scudi. Dalla primavera delle campagne del Nord all’autunno mondiale, passando per la canicola estiva del Tour de France e la schizofrenia pirenaica della Vuelta. Una vita pancia a terra.
È un cerchio che si chiude.
Non si è mai sufficientemente pronti a rinunciare a ciò che ci appassiona e, in tal senso, Don Alejandro ha incarnato la nostra voglia di sentirci parte integrante di una disciplina meravigliosa e ci mancherà. Nell’irrisolta questione del sole e della luna, c’è chi un po’ cinicamente sostiene che non sono i ciclisti a fare grandi le corse ma è il blasone di queste ultime a conferire loro luce. Un vecchio Patron del Tour de France ne fece un ostinato cavallo di battaglia, è la grandeur tutta transalpina, e in linea teorica non aveva tutti i torti. Almeno fino a quando la parabola non è quella di Valverde, la cui luminescenza ciclistica risulterebbe immutata anche sui palcoscenici della più remota periferia.
Comunque vada l’ultimo tango – pensa che uscita di scena da fiaba che sarebbe una vittoria – sabato pomeriggio in riva al lago avremo voglia di ringraziarlo con la stessa commozione che si riserva agli amici di vecchia data, quelli che sai sempre dove trovare nel momento del bisogno. Sulla strada, nello specifico, sotto lo striscione d’arrivo.
Teo Parini

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