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Che gran bel tipo era Johnny De Michelis- di Giuliano Ferrara

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Pronunciato all’americana, Gianni è l’equivalente di Johnny. Per sfotterlo, lo chiamavano così i suoi amici una sera a New York, naturalmente conclusa in discoteca. Gianni De Michelis (1940-2019) era colto e allegro, uomo di stato e uomo privato confusi nell’opinione che se ne aveva. Sapeva di urbanistica, di organizzazione e lotta di partito, come manovrare tra le correnti, come vincere i congressi o perderli, e sapeva di economia e lavoro, tra i ministeri appunto il Lavoro e le Partecipazioni statali. Sapeva infine, lunga esperienza, le cose del mondo e delle nazioni e dell’Europa, agli esteri per cinque anni e firma italiana al trattato di Maastricht. Fu uno dei prodotti migliori, e squillanti, del socialismo italiano curioso, arruffone e in battaglia disordinata per difendere la propria indipendenza dai colossi democristiano e comunista. Era di un ottimismo chiassoso e autolesionista. Nel pieno delle inchieste di Milano sulla corruzione, che tutto travolgevano, un’ordalia del buoncostume e della folla adirata, zampettava iattante con la sua corpulenza, i suoi capelli lunghi e malcurati, le sue cravatte allentate, il suo ghigno sprezzante da miope, e nell’emiciclo della Camera ridimensionava la catastrofe della Repubblica dei partiti, dicendo imperterrito che si era solo rotto una gamba e in qualche mese tutto sarebbe stato risolto.

 

Non sapeva e non voleva salvarsi, aderiva al regime di Craxi senza identificarsi, mantenendo una sua autonoma originalità di riformista e di socialdemocratico, inseguiva il decisionismo con le cautele del dubbio, ma nel tempo fatale in cui si misurano gli uomini verticali non ebbe le esitazioni, gli opportunismi di basso conio, le infedeltà a sé stessi di molti altri: la piena lo travolse vivo e vegeto, lui non cercò di guadagnare la riva e non si immerse per riemergere, si lasciò investire dalla corrente maligna senza fare il furbo, il finto remissivo, l’italianuccio. Fece anche di più, rifiutò di appartarsi e scrivere una gran libro di esperienza e intelligenza, che era nelle sue corde, rifiutò di kissingerizzarsi. Si gettò a capofitto nel mondo sconfitto del socialismo dei sopravvissuti, e senza alcuna speranza continuò ad agitare la bandierina senza vento, a tenere la posizione, a sbatacchiarsi tra i relitti della sua storia, tra le schegge del troncone che bruciava e si consumava fino alla cenere. Fu un errore, ma di questi errori volontaristici e vitalistici è fatta la storia, e la gloria se sia possibile dirlo e pensarlo, del socialismo italiano.

 

Veneziani rinvigoriti dal trambusto giudiziario, gli stessi che lo trattavano compunti da Doge in laguna, gli davano del ladro nelle calli e sui ponti, sotto la luna indulgente e paziente inclinata sulle acque. C’è un filmato notturno di quella vergogna. Si intravede tra i canali, nell’ombra della sera, il suo volto spaurito e basito, ma era lo spirito infame e posticcio dell’epoca, appena dopo le sottigliezze, le grossolanità e i pasticci di un regime dei partiti che ora in tanti rimpiangono. Di quel regime è sopravvissuta per tanti anni la “cooperativa De Michelis”, com’era chiamata con una sfumatura di spregio: era una coorte di politici, tecnici, burocrati, funzionari, industriali, imprenditori, finanzieri, sindacalisti, e magari faccendieri e lobbisti che sapevano il fatto loro e sono stati strumenti della continuità sociale, statale e repubblicana anche dopo, molti anni dopo, la caduta del regime originario. Fu particolarmente detestato, per un periodo, perché la folla malmostosa intuiva che dietro la sua maschera non c’era solo un curriculum, e che curriculum, c’era anche un interminabile carnevale o carnovale fatto di curiosità, di donne briccone e charmantes, di humanitas, di buoni libri, di applicazione svogliata e di studio disinteressato. Che gran bel tipo era Gianni o Johnny De Michelis. 

Giuliano Ferrara (Il Foglio, maggio 2019)

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