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Cento anni, omaggio ad Alessandro Solgenitsin- di Emanuele Torreggiani

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Dolenti e terribili i suoi occhi, lo sguardo dell’uomo che ha visto tutto e altrettanto capito. Erano gli occhi di Cristo risorto, il Cristo di Caravaggio che non fissa lo spettatore, ma un infinito nel quale Egli solo si riconosce e si fascia di silenzio.

Cena di Emmaus, con l’oste alle spalle, la sua mano infilata nella pesante cinghia che gli sorregge i calzoni. Capolavoro verticale. Ma sia. Lo si vide così quando, nel 1978, Alexander Solgenitsin, espulso dall’Unione Sovietica, oggi Russia, rus: la terra, appontò, per un breve periodo, in casa di Heinrich Böll, Germania Ovest, scrittore, Nobel 1972 per la letteratura: leggasi, al riguardo: Dov’eri Adamo; Casa senza custode; Opinioni di un clown; Foto di gruppo con signora. Alessandro Isaia Solgenitsin aveva dovuto lasciare l’Unione Sovietica, la sua madre patria, espulso per ordine di Leonida Breznev, il segretario generale del partito comunista sovietico, l’uomo che teneva il timone dell’URSS, l’unione delle repubbliche socialiste sovietiche, Der Golem. Nel 1978 si leggeva poco di Solgenitzsin, nei decenni seguenti ancor meno. Pure egli, lo scrittore più fotografato del mondo di allora, attraversava la ‘cortina di ferro’, sublime definizione di Winston Churchill, sui capitoli di “Una Giornata di Ivan Denisovič”, tradotto in italiano nel 1963 sia per Garzanti che per Einaudi. Ce ne parlò, di questo romanzo true fiction, correva l’anno domini 1977, un prete. Il romanzo che Solgenitzsin aveva scritto nel 1963 gli aveva dato, in Unione Sovietica, un clamoroso successo. Correva il decennio di Nikita Cruščëv, l’uomo che aveva denunciato al mondo il Termidoro staliniano, Giuseppe Stalin, detto anche popolarmente “Zio Koba”. Solgenitzsin aveva narrato, in forma di realismo, la verità del Gulag. Nikita Cruščëv, succeduto al Piccolo Padre di tutte le Russie, lo Stalin post Lenin, e ne aveva denunciato i crimini, omettendo, come si conviene, i propri, essendo stato, egli stesso, il ridente Nikita, su ordine indiscutibile del Giuseppe Stalin, il capo politico della milizia responsabile della dekulakizzazione dell’Ucraina, anno domini 1929/ 1933, l’Holomodor, che marca, cronologicamente, il secondo genocidio dell’Europa, il primo fu quello armeno ad opera dei turchi, con un numero imprecisato di milioni di morti. Ah, l’ingegneria umana, quanto non ha massacrato illudendo da Giuliano La Mettrie in avanti.

È andata così. Che dire, sia. Dunque. Il nostro Alessandro Solgenitsin, nato nel 1918, è un uomo sovietico. Integrato nel sorgente sistema comunista. Egli si laurea in matematica poco prima della Seconda Guerra Mondiale che laggiù viene definita la Grande Guerra Patriottica. E non si lascia indietro. Si guadagna sul campo i galloni di tenente e capitano e ben tre decorazioni. Una decorazione significa aver fatto un passo avanti di là dal proprio dovere. E la guerra, su ogni fronte, non è un video gioco: o la vita o la morte. La vita è una tanto quanto la morte. Vaaa beene, dicono oggi in questa roba qua che si chiama Europa… Alessandro Isaia Solgenitsin, anno domini 1944, critica le direttive di Giuseppe Stalin. Si trova nei pressi di Kursk, la plaga Ucraina che vide la più grande battaglia di mezzi pesanti della storia umana. Mio zio, io suo omonimo, vi cadde. Dio saprà… Alessandro Isaia Solgenitsin viene arrestato dal segretario politico del reggimento. All’alba viene condannato ad otto anni ai lavori forzati, Siberia nord orientale. Il destino che appartenne a Fedor Dostoevskij. Infatti La giornata di Ivan Denisovic, al suo apparire, fu comparata con Memoria di una casa di morti dell’immenso scrittore. La giornata di Ivan Denisovic apparve dopo il disgelo staliniano. Scriveva, Alessandro Isaia, del gulag. Il complementare sovietico dei campi di sterminio nazisti, con l’unica differenza che i comunisti non avevano ancora il gas. Si deve scontare otto anni. L’ingegnere Alessandro Isaia scrive di quello che sa, come ogni uomo perbene. E scrive. Dopo Nikita Cruščëv arriva Leonida Breznev. Un mostro stupendo. Il grande eroe della stagnazione. Leonida Breznev, l’uomo che bacia sulla bocca Erich Honecker, il presidente nominato da egli stesso alla guida della Repubblica Democratica Tedesca, condanna il nostro Alessandro ad un altro mezzo decennio. Le sue opere sono ritirate. Tutte. Entrano nel circuito del samisdat. Nell’edito in proprio e circolante sottobanco. Una esperienza letteraria degna degli aedi di Omero. Anno domini 1970, Alessandro Solgenitsin, viene insignito del Nobel per la Letteratura. Sic transit gloria mundi. Non può riceverlo. Ostpolitick. Con la sua barba che incenerava il suo perimetro ortodosso, Alessandro Isaia Solgenitsin, lo amammo. Veniva dal profondo oriente, dal permafrost. Celebre in patria fu espulso. Lo accolse nella sua dimora Böll. Dell’intellighentia italiana, per pietas patriotica nulla avremo da scrivere per le loro miserie. Dopo una breve permanenza tedesca federale andò in America. Gli Stati Uniti. Visse i sui anni da senza patria, visualizzando la coincidenza tra comunismo e capitalismo. Materia umana e materia economica.

Giussani durante una lezione

Morì e fu sepolto. Ah, il prete che ce ne parlò, negli anni del nostro noviziato, per dirla con il grande Goethe, fu Luigi Giussani. Leggeva brani, in aula magna dell’Università Cattolica, ed ogni tanto l’emozione gli spettava il respiro. Si fermava e guardava quel mondo là. L’oltre confine. Sono passati cento anni dalla nascita di Alessandro Isaia Solgenitsin. Che Iddio ci perdoni tutti noi.

Emanuele Torreggiani

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