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C come Compassione: prosegue la rubrica psicologica a cura di Floriana Irtelli e Fabio Gabrielli

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C  come Compassione

Che cos’è la compassione? Quando la si può incontrare nella vita? Che senso ha questo sentimento? Che differenza c’è tra compassione e compatimento?

Calando questo vissuto nel concreto, per meglio comprenderlo, possiamo affermare che sicuramente la compassione rappresenta un fondamentale anello di congiunzione tra la rabbia che si sviluppa dopo aver subito un sopruso e il raggiungimento del perdono: è una sorta di svolta esistenziale.

Lo stesso anello di congiunzione può essere rappresentato anche dal compatimento, pur essendo un sentimento diverso: esso è caratterizzato da indulgenza, umana comprensione, pietà, tolleranza, sopportazione, ma cela anche un certo senso di disprezzo e pena verso chi viene compatito; infatti, esso non è un sentimento del tutto benevolo: spesso nasconde un senso di presunta superiorità.

La compassione, al contrario, è completamente benevola, ed essa è stata riconosciuta come fattore che promuove la salute: è un vissuto per il quale un individuo percepisce la sofferenza altrui desiderando alleviarla; nel buddhismo, in particolar modo, essa rappresenta il desiderio del bene verso il prossimo e verso ogni essere vivente.

Dopo aver subito un torto, quindi, successivamente alla rabbia, possono scaturire sia la compassione sia il compatimento, così, tramite questi sentimenti, si può trovare nel dolore una prospettiva nuova e diversa: per esempio comprendere che in quanto esseri umani siamo tutti fallibili, o trovare nuovi obiettivi per la vita, o capire che chi ha provocato un danno è una persona contrassegnata da limiti e miserie, o anche essere consci del sollievo che deriva dalla compassione e/o dal compatimento stessi.

La tolleranza si intreccia a questi sentimenti, e costituisce anch’essa un importante anello di congiunzione tra l’elaborazione di un torto e il perdono: rappresenta l’accettazione della frustrazione.

Secondo il buddismo, è comunque la compassione che viene ritenuta necessaria per eliminare totalmente la propria sofferenza, essa è considerata l’essenza stessa della vita di ogni creatura: non coincide comunque con il perdono, ma tende a promuoverlo e includerlo.

Ad ogni modo, la compassione non è solo tenuta in gran conto da varie religioni ma è considerata un elemento centrale anche secondo alcuni approcci psicoterapeutici; quindi, la vittima compassionevole (o che diventa compassionevole) si astiene dal reagire alle offese subite, e l’attenzione si sposta dunque sulle sofferenze e miserie altrui, piuttosto che sulle proprie ferite, senza un senso di superiorità (caratteristico invece del compatimento).

Secondo queste prospettive, la persona compassionevole diventa quindi capace di vedere l’aggressore come una creatura umana fallibile, povera, limitata e/o bisognosa.

 L’empatia può aiutare in questa dinamica, proprio perché induce a percepire il colpevole come un essere umano vulnerabile come noi, più che come una sorta di minaccia, e questo stimola la comprensione e il compatimento, o compassione. Il compatimento, lo rimarchiamo, a differenza della compassione, può spesso celare anche una sfumatura di risentimento, quindi svela in sostanza una certa esitazione a perdonare completamente. Si tratta, quindi, di un sentimento meno pacificante rispetto al percorso che traghetta dalla compassione al pieno perdono.

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Irtelli F. (2021 in stampa) Sul perdono, l’esperienza umana della rinascita, Aracne editore.

Riuscire a conseguire la capacità di perdonare tende ad assumere (quasi sempre) una valenza terapeutica. Anche se il processo di rielaborazione interiore, necessario per giungere al perdono, può risultare sovente doloroso e difficile, pare esistere una fondamentale e stretta connessione tra perdono e salute mentale, e in questo tortuoso viaggio compatimento e compassione giocano un ruolo da protagonisti.

 

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