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Dall'archivio:

Berrettini al ballo dei maestri, Panatta al Crazy Horse- di Teo Parini e Fabrizio Provera

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Da oggi, e dopo oltre 40 anni, un tennista italiano gioca le Atp Finals (un tempo, era il Masters). Ticino Notizie celebra questa grande ricorrenza… a modo suo.
Qualche anno fa, la mamma di un imberbe Jim Courier si recò alla corte di Nick Bollettieri perché, a suo dire, il figlio necessitava di migliorare la tecnica del rovescio per compiere il definitivo salto di qualità.
Il guru dell’omonima Academy osservò qualche scambio dell’aspirante campione prima di sentenziare: “Signora – disse – faremo di questo ragazzo il futuro numero uno al mondo senza che colpisca mai di rovescio”. Esagerava, ovviamente, ma l’idea nascondeva a monte qualcosa di vincente, una frontiera nuova. Detto e fatto, il tennista dalle movenze di un giocatore di baseball da lì a qualche tempo avrebbe guardato il mondo del tennis dall’alto, con il colpo di scorta, il rovescio, rimasto pressoché tale. Un complemento, per tutto il resto c’era l’epocale diritto colpito con efficacia sempre e comunque. Matteo Berrettini, ventitré anni da Roma, non è (ancora) della stessa pasta pregiata di Courier ma dalla parabola d’oro del Big Jim degli anni Novanta può prendere spunto, forte di alcune similitudini interessanti.
Intanto ha un lato sinistro complessivamente migliore di quanto non avesse a suo tempo l’americano e il team composto da Santopadre e Rianna, i coach, non ha nulla da invidiare in quanto a sapere tennistico all’istrionico Bollettieri. Se ciò non è garanzia che a fine carriera il palmares del nostro alfiere sarà altrettanto ricco – Courier vantava una mobilità di base, quindi una copertura dello spazio, e un footwork quasi irripetibili, al punto da poter esasperare in maniera sistematica la ricerca del diritto anche dalle zone anomale di campo – è però l’esempio di come l’asimmetria di rendimento tra i due fondamentali di rimbalzo possa essere gestita anche ai livelli di eccellenza e, nella migliore delle ipotesi, financo trasformata in un’arma letale. Un giro su YouTube ed è facile rendersene conto. Berrettini, che per molti addetti ai lavori è quantomeno il nuovo Andy Roddick e magari lo diventasse davvero, serve, impatta con il diritto pesante come un macigno e ha una solidità mentale da Top 10, e non a caso lo è già, mentre la capacità di spostamento e il rovescio – bimane secondo modernità imperante e stilisticamente approssimativo ma spendibile nella versione slice che Rino Tommasi definirebbe con simpatia “agricola” – sono i sottoinsiemi del gioco per i quali sussistono i margini più ampi di crescita. All’uopo non bisogna dimenticare che Matteo fino a gennaio 2018 non aveva ancora vinto un match del circuito maggiore, vien da sé che il processo di maturazione sia tuttora pressoché agli albori. A meno di ventiquattro mesi da allora l’azzurro, con entusiasmante precocità, prenderà parte alle ATP Finals londinesi in compagnia dei migliori sette tennisti del 2019, l’élite, riconoscimento algebrico e imperituro per un’annata rosea ben oltre ogni ottimistica previsione che lo ha visto aggiudicarsi due titoli, Budapest e Stoccarda, timbrare una semifinale Slam a New York e nel Mille di Shanghai. Indizi che fanno una prova insindacabile di competitività e costanza. Un’annata condita da scalpi di prestigio quali formidabili iniezioni di autostima e qualche salutare scoppola, crocevia obbligatorio per chi pensa in grande e non ha paura di sbagliare. Per tornare a quello che gli appassionati meno giovani continuano a chiamare con nostalgia “Masters” che prenderà il via tra pochi giorni impreziosito dalla colorazione tricolore, un campanilistico ringraziamento va però a Shapovalov. Il next gen canadese gioca un tennis meraviglioso, dunque lodevole a priori e, cosa che più ci interessa da vicino, in virtù del successo riportato su Monfils nei quarti di finale a Parigi Bercy per il nostro Berrettini si sono appunto spalancate le auree porte delle Finals, proprio a scapito del transalpino. Morale della favola, quattro decadi dopo l’ultima volta quando toccò al tennis operaio e tignoso di Barazzutti, l’Italia della racchetta torna a essere rappresentata nella kermesse nobiliare di fine stagione grazie alla prepotente crescita del laziale che dallo scorso lunedì può esibire un best ranking da numero otto al mondo. Otto. Inserito in un girone che a definire di ferro gli si fa un torto – con l’italiano ci sono infatti Federer, Djokovic e Thiem – il palcoscenico di Londra rappresenta, insieme, un premio e un banco di prova per testare il livello acquisito in una disciplina che, per l’organizzazione che si è data nella conta dei punti, costringe a sudarsi ogni piccola riconferma. Archetipo del tennista contemporaneo, dunque attrezzato senza particolari limitazioni per tutte le superfici, e ragazzo che ha fatto propri valori quali educazione e umiltà, l’Italia del tennis con Matteo firma così in maniera indelebile una polizza di successo per gli anni a venire. Inutile negarlo, il periodo storico è propizio con pochi precedenti analoghi, e, se è vero che la competizione stuzzica il talento, è lecito attendersi già dall’estate australiana alle porte risultati importanti dai tennisti di casa nostra, vicendevolmente sospinti a innalzare l’asticella. Presto per dirlo, ma se da qui a un biennio Berrettini dovesse iscrivere il nome nell’albo d’oro di un Major ogni reazione sarebbe concepibile fuorché lo stupore. Tra coloro che riceveranno l’eredità degli attuali regnanti Matteo non è oggettivamente il più talentuoso – Tsitsipas o lo stesso Shapovalov, per citarne qualcuno, possiedono una manualità più raffinata – ma nei confronti dei papabili competitor il bilancio consuntivo, somma di tutti gli ingredienti che concorrono a formare un tennista, non è così sfavorevole, anzi. In ogni caso la sagoma di Matteo in compagnia dei Fab Three sulle réclame del torneo dei Maestri è qualcosa che ci riempie di orgoglio. Non sarà facile uscire indenne da un siffatto mare di squali ma la consapevolezza è che Berrettini, a Londra, non ci sia affatto finito per caso. Buona fortuna.
Teo Parini

La grande bellezza del tennis non ha un futuro assicurato. Si coniuga al passato stimolando riflessioni che attraversano vent’anni della nostra vita, e trova nuova linfa nel presente muovendo considerazioni di felice sbalordimento“. Mah.

Ieri, proprio ieri, abbiamo letto un pezzo di raccapricciante bellezza su sport e vita. Ossia il racconto della vicenda umana di Paul Gascoigne, che a poco più di 50 anni è (ancora) miracolosamente in vita. Il racconto, vergato da Enrico Brizzi, è stato di una violenza pudìca.

‘Tutto torna a confondersi nella nebbia che avvolge il fiume Tyne, tra tare ereditarie , disagi vissuti in comune e personalissime forme di infelicità, è come se Gazza non si fosse mai perdonato la morte di Stephen. Alla luce del giorno, tuttavia, combatte per restare aggrappato alla vita e a un’ipotesi di felicità provvisoria’.

Giornalismo che evolve, sfocia in letteratura.

Chi vive sino in fondo la correlazione stretta, financo consaguinea, tra successo sportivo e potenziale dissipazione umana ha sicuramente notato anche questa frase: “La vittoria porta con sé granuli di depressione. Molti lo negano, altri non lo avvertono perché vivono la carriera in continua accelerazione. Meglio di tutti stanno i fessi, che non si chiedono mai il perché delle cose”; il che conferma una vaga idea, ossia che, specie con l’esasperazione odierna, per primeggiare negli sport, concentrando nel gesto tutto il meglio di sé, forse essere un po’ stupidi aiuta (ovviamente ci sono le debite eccezioni, Adriano Panatta compreso).

Stiamo naturalmente parlando dell’ultimo italiano ‘asceso’ alle Finals Atp prima di Berrettini, ovviamente l’imperatore Adriano da Roma, racchetta di legno e completo bianco che ha sempre tradito la perfezione della sua imperfezione fisica, grammi di pancia che fanno sorridere, al confronto della mostruosità atletiche dei tennisti odiern, che pure da Dio tennis hanno ricevuto in dono solo pochi grammi di talento rispetto alle Grazie agonistiche di Panatta, capace di oscillare tra la quarta e la settima piazza dell’Atp, e che dopo essere asceso alla maggiore età nell’anno delle rivoluzioni (1968), piazze nell’anno Domini 1976 una tripletta da vanesio aspirante al trono che avrebbe sempre rinunciato alla gloria per spendere ore di debordante piacere tra cosce discinte e coppe di champagne fané in un tavolo a bordo palco del Crazy Horse: torneo di Roma, Roland Garros e coppa Davis nella ‘hacienda’ del regime di Augusto Pinochet, assieme a Paolo Bertolucci e Tonino Zugarelli.

A Roma sconfigge il ‘bandolero stanco’ Guillermo Vilas, a Parigi seduce l’irrequietezza scandinava abbacinata di perfezione tennistica di Bjorn Borg (ai quarti) e alza il trofeo battendo Harold Solomon.

Un’intelligente e inquieta sensibilità. Dalla romanità caciarona di un uomo multiforme e complesso- che nello splendido ‘Il tennis è musica’, scritto con un califfo come Daniele Azzolini (edito da Sperling), rivela una sensibilità ed un’intelligenza inusitate)- a quella arrembante e a tratti fisicamente debordante di Berrettini, il tennis italiano vive forse il suo più grande momento storico. In attesa che che la diarchia Berrettini-Sinner faccia pieno corso, e che l’imberbe austro-ungarico dal passaporto italiano ascenda al posto che sembra spettargli per diritto divino: l’empireo agonistico.

Certo, le notti sulfuree del Crazy Horse rimarranno per sempre una parentesi (ed un ricordo) sportivamente ed umanamente indelebili. E nella descrizione del ‘tennis che fu’, e che successivamente è stato (il libro di cui sopra), la coglierete anche voi.

Fabrizio Provera

Questo articolo fa parte dell'archivio di Ticino Notizie e potrebbe risultare obsoleto.

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