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Bergoglio, perché accanirsi contro la Messa in latino? Di Marcello Veneziani

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Ma perché accanirsi contro la messa in latino? L’occidente si scristianizza, la gente non va più a messa, la blasfemia e l’oltraggio alla religione dilagano e Bergoglio colpisce i rari devoti seguaci dell’ordo missae. La sua gratuita censura della messa in latino è uno sfregio simbolico alla Tradizione, ai suoi fedeli ma anche alla libertà di culto. Che male può fare una messa in latino, riammessa da Ratzinger nel 2007, peraltro così discreta e marginale? Perché accogliere i non credenti, gli islamici, dialogare con i credenti di altre fedi, anche rivoluzionarie e anticristiane, e poi chiudere le porte della Chiesa ai pochi, irriducibili devoti della messa antica e della fede secondo tradizione? Per dirla in latino, senza traduzione, Piscis Ecclesia primum a capite foetet…

Persino Giovanni XXIII nel ’62 faceva sua le parole di Pio XI: “La Chiesa esige per sua natura una lingua che sia universale, immutevole e non volgare”. Collimava con quel che René Chateaubriand aveva scritto nel Genio del Cristianesimo: ”Crediamo che una lingua antica e misteriosa, una lingua che non varia più con i secoli, convenga assai bene al culto dell’Essere eterno, incomprensibile, immutabile”.

La mente va a Cristina Campo e perfino a Jorge L. Borges, argentino come Bergoglio, che difesero invano l’ordo missae quando fu soppresso nel 1964. Soprattutto lei, Cristina, alias Vittoria Guerrini, denunciò nella cancellazione della messa in latino “l’apostasia liturgica del secolo” e fondò un movimento come La Voce in difesa della tradizione violata. Poi scrisse della sua dolorosa rinuncia a seguire la messa dove l’aveva per anni seguita: “A Sant’Anselmo è giunta la lebbra (microfoni da per tutto, parti della Messa in volgare, discussioni penose là dove era silenzio e sorriso) ed io non vi metto più piede”; e non aveva ancora visto le schitarrate, i comizi dei preti e i linguaggi alternativi… Così Cristina-Vittoria scese dall’Aventino fino al Pontificio Collegio Russicum fondato da Pio XI per preparare i seminaristi russi, poi chiuso dai gesuiti di Bergoglio. E lì seguendo la messa col rito bizantino ritrovò, scrive Emanuele Casalena “quella bellezza della perfezione che tanto aveva inseguito nella vita; tutto gliela ricorda, dalla liturgia, ai canti, dai gesti meditati, ai paramenti fino alle sacre icone appena illuminate dal tremulo fiammeggiare delle candele, lì riscopre la metafisica della bellezza”.

Nell’anno della morte di Cristina Campo, nel ’77, il nichilista ironico Giorgio Manganelli stroncò invece la messa in latino sul Cursore Vespertino (alias Corriere della sera), in uno scritto poi raccolto in Mammifero italiano, Adelphi). Un virtuoso esercizio di intelligenza e scrittura ma separata da ogni apertura spirituale e mentale al linguaggio del sacro e alla bellezza metafisica.

Il ricordo della messa in latino ci riporta all’infanzia. Era l’ultima messa in latino nella cattedrale del mio paese, con un’offerta di venti lire per sedere nel coro con mio padre. Ho ancora negli occhi, nel naso e nelle orecchie, la bellezza di quel rito, il profumo dell’incenso, il mistero di quelle parole. Mi sentivo connesso alla rete del Signore. Il prete si rivolgeva a Dio e non Gli dava le spalle per compiacere i fedeli come se la messa fosse un’assemblea condominiale o sindacale o un comizio politico per cercare consensi; le parole sussurrate e antiche, il mistero di quelle formule, i canti gregoriani, i silenzi, promanavano il sacro e avvicinavano al Signore. E l’incenso generava sinestesia mistica. La messa non è una soap opera, non è necessario capire le parole; è un rito di comunione con Dio e non un foglio d’istruzioni per montare Alexa. Chi dice che il mistero di quelle parole serviva per sottomettere il volgo al dominio del clero, non si rende conto di quanti linguaggi iniziatici, esoterici, criptici è infarcito il gergo corrente, della tecnologia alla medicina alla finanza, dai misteri di un pc ai labirinti fiscali. La casta sacerdotale ha lasciato l’egemonia alla casta dei tecnici, dei burocrati, dei sanitari e dei commercialisti. A ciascuna setta il suo latinorum.

Quando penso al latino ripenso alla scuola e m’intenerisce il core pensare a certi professori che non ci sono più. Li penso tutti insieme, in gruppo, i Mitici, i Pedanti, i Pedofagi, cioè i torturatori di ragazzi con il terribile latinorum. Poi penso agli altri docenti più giovani, che mal sopportavano il latino e non lo amavano, facendosi così più amare da noi liceali. E invece dovremmo pentirci, dissociarci da quel passato dissacratore, e riabilitare i primi, latinisti per passione, e deplorare i secondi, latinisti per necessità. Avevano ragione loro, senza il latino noi italiani siamo tutti trovatelli, figli di nessuno, ovvero di Madre lingua ignota (sapete come si traduce a Roma), quando il latino divenne facoltativo e perfino intercambiabile con l’applicazione tecnica (con tutto il rispetto per i falegnami). E più dilagano gli slang cosmopoliti, le americanate linguistiche e i grugniti neo-gergali, i codici d’accesso e più s’avverte il bisogno di tornare alla Casa Madre. Magari per farsi rispettare, evocando le nostre origini romane e cristiane. A Bruxelles, a Strasburgo, a New York sarebbe bello opporlo all’esperanto dei burocrati, presentandoci con la linda e austera chiarezza del latino. La trasparenza di una costruzione lessicale è il preambolo per una trasparente costruzione politica, rispettosa della civiltà da cui proveniamo. E una lingua pulita s’accompagna di solito a una mens sana.

Ci vorrebbe un Sexaginta octo di segno opposto per rilanciare il latino, cancellato dal ’68 e propaggini, fino al colpo di coda di Bergoglio. Magari celebrando il dies familiae – che suona meglio di family day; mentre gay pride suona male se lo traduciamo con ipse sexus amator superbia. Ah, il rigoroso lindore della lingua latina e il suo amore assoluto per la verità…

di Marcello Veneziani (La Verità, 18 luglio)

 

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