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Avanti popolo (e Gianpiero Galeazzi), alla riscossa: terra rossa, terra rossa.. Di Teo Parini

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Un grande, grandissimo e meditato pezzo del nostro Teo Parini su Gianpiero Galeazzi. Leggetelo, con attenzione. F.P.
Se oggi, all’alba dell’anno 2022, il tennis azzurro gode di un invidiabile stato di salute, tanto che per la prima volta da quando esiste il computer due dei nostri ragazzi coabitano o quasi tra i primi dieci giocatori al mondo con tutti i benefici al contorno del caso, vale la pena di ricordare che purtroppo non è andata esattamente allo stesso modo nelle precedente decadi.

Paolino Canè

 

Quando il pane duro dell’anonimato ha riempito le nostre tavole, demoralizzato gli addetti ai lavori, costretto gli aficionados a rassegnarsi a vedere vincere sempre gli altri come se ciò costituisse la norma.

Dimenticato in fretta Adriano Panatta, giocatore meraviglioso e altrettanto meraviglioso agitatore delle notti romane, gli anni ottanta aprono una lunga parentesi di transizione, sporadicamente interrotta da qualche effimero sussulto nostrano. Qualche ragazzo volenteroso, una manciata di talenti non del tutto esplosi, pensiamo a Paolo Canè e Omar Camporese ovvero gioia e dolore per chi scrive, il raggiungimento della famigerata seconda settimana nelle prove del Grande Slam – il gotha per i meno avvezzi nonché cartina al tornasole dello stato di salute di una nazione – percepita come un accadimento raro quindi da tributare a caviale e champagne. In un amen se ne vanno così tre decadi portandosi via la nostra giovinezza e il resto è la storia di questi giorni che fanno da preludio a giorni, se possibile, ancora più luminescenti.

Sempre per non scordare da dove veniamo, quando al vertice si alternano tutte le colorazioni fuorché quella azzurra, c’è in quell’epoca uno spaccato di tennis a sé cucito addosso alla nostra indole che, se non sempre vincente, guerrigliera lo è di sicuro. Così, la meno tennistica delle manifestazioni tennistiche – la Coppa Davis – diviene teatro di alcune pagine di sport il cui valore trascende la mera conta dei punti, perché si nutre più di cuore che di talento, con più caciara e meno élite, più garra donchisciottesca che almanacchi.

 

Al solito non si vince nulla, per carità, ma alcune cartoline spedite dai nostri portacolori testimoniano momenti di un tennis nazionalpopolare che hanno il merito di riportare la disciplina che fu di Bill Tilden a essere motivo di orgoglio e discussione quotidiana. La bolgia di Cagliari, un pantano rosso che inghiotte i maestri svedesi, il miracolo di Pesaro con la Spagna annichilita, lo scalpo degli yankee a Milwaukee, la dolorosa torcida di Maceió, sono solo alcuni dei weekend passati francobollati alla televisione, con il trasporto chiassoso che per solito si dedica ad attività ludiche meno nobili e, diciamolo, strutturate con più pancia che consapevolezza.

Quando si tratta di ciò, dunque cuore al potere, la voce narrante è parte inscindibile dell’evento e, nelle succitate decadi, è sempre quella di Giampiero Galeazzi, un marchio di fabbrica. Noi che abbiamo amato, anzi amiamo, visceralmente la prosa di Gianni Clerici, la matematica di Rino Tommasi e la tecnica del compianto Robertino Lombardi, abituati così come siamo a pendere da labbra assai più competenti delle nostre, un posticino nel cassettino della passione lo abbiamo sempre riservato ad un altro modo di fare cronaca tennistica, che a dire alternativo si sbaglia per difetto, quello capace di toccare con sbalorditiva semplicità le corde dell’anima della gente. E in questo, Galeazzi, voce di un popolo desideroso di appassionarsi sporcandosi le mani, ha toccato vette forse inesplorate proprio perché maestro nell’abbattere i muri che separano protagonisti e spettatori. Come se lo spettacolo del tennis fosse un carrozzone festoso, inclusivo di chiunque avesse qualcosa da dare.

Galeazzi non è stato un cronista improvvisato come si potrebbe erroneamente pensare focalizzandosi solo su alcune delle sue proverbiali stravaganze dialettiche – in gioventù fu, intanto, atleta di ottimo livello e poi profondo conoscitore delle dinamiche agonistiche – ma un coraggioso rivoluzionario del microfono capace di dare al pianeta tennis, ecosistema snob per genesi, una veste accogliente nella quale sentirsi a proprio agio anche in assenza di sangue blu. In altre parole, il telecronista della porta accanto.

Purtroppo il Giampiero nazionale è venuto a mancare nella giornata di ieri dopo una lunga malattia che da tempo lo inchiodava lontano dal piccolo schermo. L’insegnamento che ci lascia la sua esperienza e che abbiamo il dovere di ricordare, noi che viviamo il tennis comunque come paradigma di vita, è quello di non prendersi mai troppo sul serio. Perché va bene il protocollo, il completino bianco e la panna con le fragole in compagnia dei reali ma noi siamo e restiamo italiani. Gente da abbracci e pacche sulle spalle, trattoria e pane salame. Gente che rompe gli schemi precostituiti e la rigidità delle consuetudini, come il silenzio di uno scambio estenuante squarciato, appunto, dall’urlo genuino di Galeazzi.

E allora arrivederci, Bisteccone. Ovunque tu sia adesso, insegna ai tuoi nuovi amici come si colpisce un Turborovescio: a noi lo hai fatto amare tanti anni fa.

di Teo Parini

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