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Aldo Moro, l’utopia e il cattolicesimo democratico

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Ricorre oggi il 40° anniversario della morte di Aldo Moro. Lo ricordiamo pubblicando il bel contributo del professor Biagio De Giovanni apparso sul quotidiano Il Mattino

 

Nell’immediato dopoguerra il cattolicesimo italiano partecipò intensamente alla rinascita democratica dell’Italia per la prima volta nella storia di questa nazione, e portò alla ribalta una cultura complessa, variegata e per certi aspetti nuova, muovendosi assai oltre le categorie del liberalismo classico, non però in chiave antiliberale, piuttosto verso un tentativo di sintesi di libertà e senso della comunità. Nel suo gruppo dirigente centrista v’era chi guardava a sinistra, non a un partito della sinistra, ma al mondo capace di incontrare la vita popolare, i mondi vitali in formazione e in agitazione, con la faticosa ricerca di un rapporto nuovo tra libertà e bisogni collettivi.

Moro fu sicuramente tra questi, lo guidava una cultura inquieta, che nasceva dal popolarismo sturziano, dall’insegnamento del grande filosofo cristiano Giuseppe Capograssi, dalle inquietudini politiche di Dossetti e La Pira soprattutto, alle quali Moro non fu estraneo anche nel mantenimento geloso e consapevole della autonomia di chi, infine, fu «totus politicus».

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Questa formazione spiega ciò che Moro ha cercato di pensare e di fare negli anni che più ci avvicinano a quelli della tragedia finale. Per quanto, come democratico cristiano attentissimo agli equilibri interni di un grande partito, Moro ha sempre guardato a quanto si muoveva nel fondo della società italiana di cui conosceva i tratti vitalistici e anche antiistituzionali che ne hanno percorso la storia. Il cattolicesimo politico, di cui oggi possiamo parlare come di una memoria raccolta in archivio, possedeva, tra le sue diverse sensibilità, anche quella che si chiamerà «morotea», e che stava a indicare anzitutto uno sguardo inquieto sulla società, un’attenzione costante per ciò che si muoveva nel suo fondo, prima di prendere una o altra forma politica, il tutto come nascosto, in Moro, nell’apparenza di un malinconico e talvolta egnigmatico distacco. La storia del moroteismo, come un elemento sempre più individuabile della cultura democratico-cristiana, che si era già avviata con il primo centro-sinistra nato nel 1963, incominciò veramente a disegnarsi, nella sua autonomia e volontà di mediazione, con la lettura che Moro dette del 1968, questa data cruciale della storia italiana. Egli vide in essa gli elementi di una profonda frattura, qualcosa che per la prima volta incrinava la continuità della storia repubblicana. Ed effettivamente è lì che tutto iniziò a mutare. In Italia, il 1968 prese una forma assai originale, e la conclusione dei terribili e tragici spiriti vitali che ne costituirono una componente, coincise proprio per dirla in modo icastico e forse un po’ teatrale – con l’attacco di via Fani al presidente della Democrazia cristiana, o, come dissero i terroristi, con l’attacco al cuore dello Stato. Oltre non si poteva andare, e la vicenda ebbe tutti i caratteri della conclusione.

Voglio esser subito chiaro. Il 1968 è data di straordinaria complessità e anche ricchezza, è la data in cui cambiò il rapporto tra le generazioni, ma in Italia (e non solo da noi, anche se altrove lo stesso fenomeno si fermò presto) il drammatico vitalismo che con esso si mise in movimento, si trasformò, in zone significative della società, in conato di rivoluzione sociale. Moro aveva avvertito la problematicità della data, come accennavo, aveva capito che dopo di essa nulla sarebbe stato uguale a prima, e provò per un decennio a tradurre in politica la novità dirompente che essa portava nella società. Come farlo? Come trattenere nelle maglie della politica lo scotimento disordinato che emergeva dal fondo della società italiana e che lasciava presagire la crisi dell’ordine repubblicano costituito nel 1946? Egli non fu tentato da una idea «reazionaria», tanto meno dopo il risultato del referendum sul divorzio del 1974, che piuttosto mise in crisi il fanfanismo. Moro cercò di comprendere un aspetto dell’evoluzione della realtà, ma forse glie ne sfuggì un’altra. Provo a chiarire. Egli guardò con nuova attenzione verso il Partito comunista italiano, immaginando una verità indubbia, e che cioè il 1968 sarebbe passato pure attraverso di esso, portando la sua cultura assai oltre i confini estremi, e pur già comprensivi, dell’azione di Togliatti. La conferma sembrò venirgli da Enrico Berlinguer, e dai primi anni Settanta iniziò lo scrutarsi reciproco, un’attenzione che non voleva esser confusione, ma quasi un reciproco influenzare la ridefinizione delle due forze in campo, in conseguenza dell’irrompere di nuovi mondi e nuovi pensieri nel cuore stesso della società italiana. Il fascino delle idee, in Moro, deve essere stato straordinariamente ampio, assai più di quanto egli non facesse apparire dietro uno stile riservato e quasi neutrale, ma forse emergente in quel suo star dentro-fuori la quotidianità politica. Lo si ritrova nei discorsi decisivi, quando si trattava di tagliare la realtà nel nuovo ritmo delle idee, lo si vede anche in quella vera eredità che sono le Lettere dal carcere brigatista, su cui mi fermerò tra poco.

Ma prima devo completare la mia rappresentazione. Trascinato dallo sforzo di una nuova ideazione, Moro non riuscì a misurare gli elementi che andavano componendo la realtà intorno a lui. Il suo sforzo andava verso una integrale legittimazione politica del Partito comunista, per lui unica risposta possibile alla crisi e alla nuova inquietudine della società, un modo nuovo per ricomporre il rapporto democratico tra società e potere, suo assillo costante. La sua visione non collimava affatto con quella di Berlinguer, anche se ambedue provavano a ripensare i loro rapporti reciproci. Berlinguer dal 1973 pensava al compromesso storico con la Dc; Moro pensava alla costruzione embrionale dell’alternanza democratica tra quelle che considerava le forze decisive della repubblica. Alla fine, l’idea di Berlinguer era più realistica, pure se anch’essa finita nel nulla. La visione di Moro, invece, rasentava l’utopia, quella utopia di cui restò vittima, io credo. Condizione necessaria della sua visione era il superamento del bipolarismo mondiale tra le grandi potenze, e premessa ulteriore di questa visione non poteva che essere l’avanzata del processo di democratizzazione dell’Unione Sovietica. Idea impossibile. Utopia pura. Davanti alla strategia di Moro si spalancò così un vuoto, e fu riempito dall’evento di via Fani e su di esso un eccesso di dietrologia conduce in un luogo posticcio. La verità credo che sia nella reale e autonoma potenza del gruppo di fuoco brigatista, anche se molti, di sicuro anche in America e in Urss, e non solo lì, tirarono un respiro di sollievo immaginando che l’evento fermasse per chi sa quanto tempo lo stato di cose esistente, mentre in realtà maturava, dentro di esso, la fine della prima Repubblica. Berlinguer, l’interlocutore di Moro, gli si erse contro, come un insuperabile ostacolo. Craxi, l’ignorato Craxi, fu l’unico che gli fece da sponda, e chi sa che proprio questo elemento non sia l’ennesima conferma di quanto l’isolamento culturale del craxismo, sia da parte democristiana sia comunista, negli anni Settanta, quando sembrò aprirsi una prospettiva nuova nella storia della sinistra italiana, non abbia pesato sulla storia d’Italia di quegli anni più di ogni altra cosa.

Nella tragica vicenda di via Fani, in gioco era la vita di Moro e, se così si può dire, anche qualcosa oltre di essa. Qui non voglio certo emettere giudizi sulla questione della politica della fermezza, affermata prima di tutti dai comunisti, e mi limito a ricordare la lugubre dichiarazione di Ugo Pecchioli, interlocutore del Viminale per il Pci, dopo la prima lettera di Moro: «L’onorevole Moro sia che muoia sia che torni dalla prigionia per noi è morto». Mi interessa assai più scavare brevemente nel tono e nel senso delle sue lettere. Incredibilmente considerate apocrife, e che sono tra le cose che, alla fine, restano nella letteratura del Novecento politico. Si può provare a coglierne il senso? Moro quasi legittima l’azione delle Br, un atto politico estremo, non un atto solo criminale. Certo, difende la sua vita e anche la sua storia, ma ha la forza di cercar di capire ciò che accade, e la cosa va presa sul serio non come l’affanno disperato di un’agonia. Egli sente quell’azione come il prodotto estremo di una inquietudine che aveva trovato spazio nella società, e che, degenerata, aveva distrutto ogni limite diventando azione di guerra. La politica che diventava guerra, e in guerra è previsto lo scambio dei prigionieri politici. Moro non smette i suoi panni, non si dichiara colpevole né dichiara colpevole la Dc, ma sembra voler sottolineare due punti. L’irrazionalità della politica («la politica ha delle irrazionalità per cui non conviene restarvi al di là dell’età dell’esperienza umana», come scrive al figlio Giovanni) che è quasi il richiamo alla sua connaturata violenza, e la complicata e spesso tragica lotta tra i poteri, tanto più in crescita quanto più tutta la società, dopo il 1968, si era messa in movimento e si era politicizzata e militarizzata. L’urto imponente mutava i vecchi confini e obbligava a nuovi pensieri.

Lui si era accollata un’immensa responsabilità anche destabilizzante e subì, credo, l’effetto della sua utopia politica. Ho cercato di entrare nel suo stato d’animo che produsse pensiero, e perfino letteratura. Mi fermo qui. Si avviava l’inizio della fine della prima Repubblica, e con essa pure la fine degli estremismi che ne accompagnarono gli ultimi anni. Stava per cambiare il mondo e la collocazione di frontiera dell’Italia. Tutto avrebbe preso nel giro di pochi anni una fisionomia diversa.

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