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Dall'archivio:

‘Afghanistan, un disastro annunciato’

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Potrebbe contenere informazioni obsolete o visioni da contestualizzare rispetto alla data di pubblicazione.

 

L’Afghanistan è tornato nelle mani dei Talebani, dopo vent’anni di presenza delle truppe della Coalizione l’esercito e le istituzioni si sono sciolte come neve al sole di fronte all’avanzata degli islamisti. Il futuro della regione è pieno di incognite, l’Italia ha partecipato alla missione Isaf e Resolute Support con migliaia di soldati e pianto 53 caduti oltre a centinaia di feriti.

Questa fuga precipitosa da parte degli Occidentali è difficile da mandare giù, soprattutto per chi, come Claudio Spinelli, di sabbia afghana ne ha ingoiata parecchia negli anni trascorsi tra Farah ed Herat a dare la caccia ai guerriglieri talebani. La sua esperienza l’ha raccontata in un libro dal titolo evocativo “Forze Speciali, 100 giorni all’inferno”. Oggi, a 43 anni, Spinelli può rivelare professione e identità perché ha lasciato nel 2017 la vita operativa iniziata nel 2001 con l’arruolamento nelle forze speciali italiane per dedicarsi all’azienda di famiglia, la Stam Strategic & Partners Group, che si occupa di sicurezza internazionale, intelligence e antiterrorismo. Incursore del 9° reggimento d’assalto “Col Moschin”, Spinelli ha fatto parte della Task Force 45, unità d’élite impegnata, insieme alle altre della Nato, nella ricerca dei leader islamisti e nell’addestramento dei corpi speciali locali.

Lei è stato impiegato per parecchio tempo in Afghanistan e conosce bene la realtà locale, che sensazioni prova guardando le immagini che arrivano da lì, si aspettava un crollo così repentino dopo il ritiro dei contingenti occidentali?
“Mi lasci dire che in questo momento provo una sensazione molto forte di disagio. Il disimpegno degli Stati Uniti è stato un colpo durissimo, uno dei più grandi errori di Washington, molto simile a quanto accaduto in Vietnam. In più ho un rammarico fortissimo perché penso che abbiamo consapevolmente abbandonato al loro tragico destino un intero popolo che aveva creduto in noi. Era chiaro che nel momento in cui ci saremmo ritirati l’epilogo sarebbe stato questo”.

Perché dice “era chiaro”, la disfatta di Ghani e dell’esercito afghano era così scontata?
“Dal mio punto di vista professionale, o da chi è stato operativo sul terreno, sì. Non posso credere che i servizi segreti occidentali, compresi i nostri, non lo ipotizzassero. Quasi quasi c’è da augurarsi che il ritiro e questa nuova situazione siano il frutto di una scelta pianificata con cura per qualche ragione che mi sfugge. Sapevamo bene che andati via i soldati della Nato, l’esercito afghano non avrebbe retto all’urto dei Talebani”.

Ma per quale motivo un esercito bene armato e molto più numeroso viene sopraffatto, anzi fugge, di fronte ad una massa di irregolari inferiore di numero?
“Vede bisogna esserci stati lì ed avere visto come è organizzata la società afghana e cosa sono gli studenti coranici. L’Ana e l’Anp, cioè le forze militari e di polizia di Kabul, erano composte da giovani e meno giovani arruolati con la prospettiva di una vita migliore, di uno stipendio e di una diversa collocazione sociale. Nessuno di loro aveva mai visto davvero la guerra, a differenza dei loro padri o fratelli maggiori. I Talebani, invece, sono spinti alla lotta dal loro fanatismo religioso. Sono motivati e feroci e soprattutto non temono la morte per via della loro interpretazione integralista del Corano. I più anziani si sono temprati, giovanissimi, nella guerriglia contro i sovietici, i più giovani in quella contro di noi. In più, i soldati e i poliziotti afghani, soprattutto quelli delle zone rurali, avevano il terrore delle vendette contro i loro villaggi e le loro famiglie. Era chiaro che, senza di noi al loro fianco sarebbe scappati a gambe levate alla vista dei turbanti neri”.

Con la proclamazione dell’Emirato islamico quale destino attende gli uomini e le donne afghane?
“Intanto ho molta paura per chi ha collaborato con noi e con gli Occidentali in generale. Nonostante da parte dei Talebani arrivino rassicurazioni, ho notizia che le vendette e le rappresaglie sono già in atto. Pensi a tutti quelli che hanno avuto rapporti di lavoro, agli interpreti, ai commercianti, alla società civile afghana che aveva creduto in noi…E poi per le donne prevedo tempi davvero tristi. Secondo la cultura tribale pashtun, che nel caso dei Taliban si fonde con il credo fondamentalista, la donna non è una persona, ma un ventre che partorisce. Già una bambina di dodici anni costituisce un bottino di guerra o una sposa per un capo tribù o un capo talebano. Il burka è il minore dei problemi, mi creda…”.

Volendo essere estremamente pragmatici, la conquista di Kabul e l’istaurazione dell’Emirato, comunque, potrebbe, in un certo qual modo, pacificare l’Afghanistan dopo anni di conflitti e guerra civile strisciante?
“Non penso proprio. Quelli che noi chiamiamo genericamente Talebani sono una massa eterogenea con numerose diversificazioni. In Afghanistan sono presenti anche parecchie cellule dell’Isis che in questi anni sono state protagoniste di attentati e colpi di mano allo scopo di conquistare terreno nella regione. Una parte dei Talebani dialoga con loro, ma un’altra parte consistente non è disposta a lasciare spazio a Daesh. In più ci sono i signori della guerra, i coltivatori e trafficanti di oppio, insomma, temo che per quel martoriato paese la pace resterà un miraggio”.

Gianpiero Cannella

(da www.destra.it)

Questo articolo fa parte dell'archivio di Ticino Notizie e potrebbe risultare obsoleto.

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