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Abbiategrasso, Giuseppe Albetti ‘è salito alla casa del Padre’. Che disperazione, una vita senza Amicizia

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È Cristo [la] presenza che salva. Allora a noi tocca domandarlo: la «domanda della presenza di Cristo dentro ogni situazione e occasione della vita»: si può riassumere in questa parola del Papa tutta l’ascesi.

«La domanda della presenza di Cristo in ogni situazione e occasione della vita» – è una frase del Papa –, questo è l’ascesi.
Che diventi familiare in noi la domanda della presenza di Cristo in ogni situazione e occasione della vita, questo è l’ascesi.

Giussani durante una lezione

«Tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare». È stato uno dei primi titoli dei nostri raggi il primo anno al Berchet: «Tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare». Invece c’è un’altra formula, che è quasi uguale – quasi uguale a parole –: «Tra il dire e il fare c’è di mezzo il domandare».

Allora la forza della domanda è l’altro che è presente, non tu. È questa la differenza tra tutta la grandezza d’animo dell’uomo – sia epicureo che stoico, secondo le varie versioni – e il cristiano. Per l’uomo normale quello che è importante è ciò che è capace di fare, capace di superare lui (stoico o epicureo). E per il cristiano… è come un bambino: è tutto teso alla presenza della madre, del padre, dell’altro. È la forza di Dio.

Don Luigi Giussani

ABBIATEGRASSO “Il nostro amico Giuseppe Albetti è salito alla casa del Padre. Grati a Chi ce lo ha donato. Alle 19.00 reciteremo insieme il Santo Rosario guidati da don Gianni”.

Il nostro amico è morto, ‘come una freccia dall’arco scocca/vola veloce di bocca in bocca’ e di telefonini, in un’epoca maledetta nella quale l’uomo si è piegato alla scienza facendo di essa una sorta di dio pagano anteposto a ogni regola dell’umano vivere, ed anche e soprattutto al Mistero, ed alla morte, che è stata progressivamente rimossa dalla prospettiva umana.

E allora la prima cosa che pensi è che ‘loro’, i ciellini, avranno tanti difetti ma serbano fortissima (molto più del prodigioso consenso elettorale, oggi molto meno granitico d’un tempo) la mistica, la prossemica, la forza dell’Amicizia. E dici poco.. L’uomo senza amicizia è un uomo disperato. E’ un uomo perso.

 Giuseppe Albetti da Abbiategrasso, classe 1947, un cognome di reale peso nella galassia ciellina (‘casu, ta cugnusa gli Albetti? Lur si che inn fort’,  ci disse anni fa un ciellino lontano da Bià), è tornatolla casa del Padre. Il più giovane di tre fratelli, Carlo, Roberto e Giuseppe, presenza viva e forte in Abbiategrasso da mezzo secolo, con uno stuolo di figli e nipoti che ne perpetua il nome, è stato vinto dalla bestia di questo ultimo anno. Chi crede, la sua famiglia, i suoi fratelli ed amici, sanno tuttavia che non è morto da solo. A fianco di lui c’era sicuramente quel Cristo evocato da don Giussani nell’incipit di questo pezzo. La più terribile e beffarda tra le morti che possano capitare a un uomo di 73 anni che ha vissuto tutta la propria vita in mezzo a una ‘compagnia’, del resto, non può che essere una morte solitaria, la peggiore delle sofferenze cagionate da questo perverso e disumano virus.

Nella foto che vedete qui sotto, postata da Frank Ranzani, l’amico cresciuto nel solco del cattolicesimo democratico (quindi sponda Ppi e Pd, quella avversa al ventennio di regno formigoniano in Lombardia) che tuttavia di certo non ha mai pensato alle diverse appartenenze partitiche quando assieme a Giuseppe Albetti ha creato il Portico della Solidarietà, mirabile intrapresa solidaristica nata su iniziativa di persone arse dalla tensione di fare, di realizzare opere, di aiutare i più esposti, i poveri e gli indigenti, che nel 2021 della ricca e opulenta valle Grassa non hanno soldi e risorse per mettere in tavola un piatto di pasta, verdura, un po’ di frutta.

E lui si è rimesso in moto; eccolo, Giuseppe Albetti, che troneggia sul retro di un furgone bianco colmo di scatole di mele. Pasta, riso, pomodoro, farina, biscotti, olio. Da anni, ormai, al Portico della Solidarietà raccolgono cibo per i poveri. Che ci sono, statene certi. E sempre di più, da 1 anno a questa parte. Questi ciellini, diamine, sono peraltro contagiosi. Avvincono con la forza delle parole (evocativa, influente, coinvolgente, che ti obbliga a porti delle domande e ad intravedere la luce di una risposta nella coltre fumosa degli interrogativi di ciascuno) anche chi ciellino non è. E allora succede,  è successo adesso, a Pasqua, che una comune amica di ‘loro’ ciellini e non solo, Sara Valandro, donna che a vederla e soprattutto a sentirla parlare e sgranare quegli occhi scuri fa un gran sangue, come avrebbe detto Ivan Benassi detto Freccia (alias Stefano Accorsi in Radiofreccia), si mette in testa di aiutarli (e se decide di farlo, non la sposta d’un millimetro manco una falange schierata di Caterpillar..), questi craponi del Portico, e in un amen consente di raccogliere 350.000 (sì, avete capito bene: trencentocinquantamila) punti Esselunga, coi quali il Portico ha potuto comprare carrelli e carrelli di spesa per alleviare il dolore di chi, al silenzio del Covid, ha visto abbinata la difficoltà di mettere insieme il pranzo con la cena. Col furgone bianco e l’amico Frank Ranzani, su e giù per Abbiategrasso, immaginiamo che Giuseppe Albetti sia ogni tanto corso con la mente a mezzo secolo prima. A un luogo e a un volto: l’Annunciata e Andrea Aziani.

Correva l’anno 1959, quando don Gianni Calchi Novati è approdato in città, come coadiutore della Parrocchia di Santa Maria Nuova. A fatica, tra i dissensi e le opposizioni del mondo cattolico, ha tentato di far fiorire un nucleo di quella nuova compagnia conosciuta con il nome di Gioventù Studentesca (GS). Un movimento nato, in quel periodo, tra le aule del liceo classico Berchet di Milano, frutto del carisma di don Giussani e del fallimento dell’Azione cattolica di “sostenere una presenza negli ambienti della scuola”. Ma se nelle altre città dell’hinterland milanese la nuova proposta, pur non priva di contrasti, è stata accolta con entusiasmo per la sua capacità di catalizzare folte schiere di giovani, ad Abbiategrasso ha incontrato forti ostacoli. Nel 1968, prima che GS si sviluppasse in Comunione e liberazione, don Gianni è stato trasferito a Milano e il movimento, espulso dalla parrocchia, ha cominciato a radunarsi in un garage. Sabato sera, dopo oltre 30 anni, il sacerdote è tornato tra i suoi ragazzi, ormai diventati adulti, raccolti nella numerosa comunità abbiatense di Comunione e liberazione. E lo ha fatto nel salone dell’Oratorio San Gaetano, dove sono state imbandite lunghe tavolate per festeggiare il lieto ricongiungimento. Era dalla sua partenza che i ciellini non mettevano più piede nei locali parrocchiali. Un segno, dunque, della lenta rimarginazione della ferita che separava il mondo cattolico locale.

Questa cosa l’ha firmata Francesco Russo una vita fa, quando a fianco di un sacerdote simbolo del Movimento di Comunione e Liberazione, appunto don Gianni, Giuseppe Albetti accompagnò la serata di rievocazione dei primordi della presenza di Cl ad Abbiategrasso. Anni in cui i giovani cattolici avvinti da quel prete del Berchet che i destro radicali come il sottoscritto hanno sempre letto, ammirato e soppesato anche per quella scrittura che ci rimandava allo Julius Evola, filosofo pagano e fondamentalmente anti cristiano, il quale tuttavia aveva una potenza espressiva e verbale affine a quella del Gius, come lo hanno sempre chiamato i suoi tanti figli e fratelli nella Fede.

Erano gli anni Sessanta e Settanta quando all’Annunciata, all’epoca molto diversa da oggi, si radunavano famiglie, attività economiche ai confini della legalità, qualche altra forma dell’umana disperazione che potete immaginare. E poi ci andavano loro, i ragazzi di Gioventù Studentesca, impegnati nella pratica di una essenziale virtù cristiana qual è la Carità.

E c’era Andrea Aziani, l’abbiatense morto a 55 anni nel 2008 del quale è in corso il processo di beatificazione. Ce lo descrive un NON abbiatense di prestigio, lo scrittore e giornalista (di Cl) Antonio Socci.

“Questo sono i cristiani. Gente misera, ma in cammino con i santi. La persona che mi ha fatto incontrare CL – Andrea Aziani, che poi è pure il padrino di battesimo di Caterina – incarna questa storia di grazia.

Andrea arrivò a Siena mandato da don Giussani. Era responsabile di CL alla Statale di Milano dove, nel post-68, il movimento subiva tutto l’odio ideologico e la violenza fisica di quegli anni da parte dei vari gruppi estremisti (Andrea era stato spesso aggredito).

E’ impossibile descrivere la sua umanità eccezionale. Aveva l’ardore missionario di san Paolo (del resto era ebreo per parte di madre e suo nonno aveva subito persecuzioni sotto il fascismo prima perché cattolico, militante del Partito popolare, e poi per le leggi razziali).

Andrea da Siena andò in missione in Perù, nelle miserabili bidonville di Lima. E’ vissuto venti anni in quel mare di povertà ed è morto d’infarto, letteralmente consumandosi per Cristo e per i suoi fratelli, nel 2008, a 55 anni.

E’ significativa la testimonianza del suo vescovo, diocesi Carabayllo, periferia nord di Lima, il cappuccino padre Panizza: “l’avevo conosciuto una ventina di anni fa qui a Lima e mi aveva colpito per la sua preparazione e franchezza… Nel 1998 pensai alla necessità di costruire un’università per permettere di studiare alle migliaia e migliaia di giovani che mi circondavano. Lo cercai e la sua disponibilità” confermata da don Giussani “ci permise di iniziare questa grande opera che è l’Università Cattolica Sedes Sapientiae”.

Il vescovo ricorda che Andrea, insieme ad altri amici di CL, era “l’anima di questa avventura… febbre di vita era il suo motto, e realmente era una febbre di dedizione che lo portava a volte a dimenticarsi di mangiare e di dormire, per non dimenticarsi di Cristo e delle persone”. Forse sarà il primo santo che abbia vissuto il ’68. Monsignor Panizza aggiunge: “Era un ‘Memor Domini’, un laico consacrato… nessuno è potuto rimanere indifferente davanti alla sua testimonianza di passione per le persone, di attenzione ai più bisognosi, di apertura al dialogo con tutti, di lavoro incessante per una società più umana. Non ha vissuto nemmeno un minuto senza dare tutto per il bene degli altri”.

E’ da lui che ho sentito raccontare, da ragazzo, di Roberto Formigoni e di Antonio Simone. Diceva che essendo alti e robusti stavano spesso in prima fila e si prendevano le sprangate con lui durante le aggressioni a CL nella Milano degli anni Settanta.

Anche a loro, al loro coraggio e alla loro testimonianza, devo gratitudine se questa storia, questa carezza del Nazareno, è arrivata fino a me e ai miei figli.

Se hanno fatto errori (come tutti noi) ne risponderanno al confessore oppure agli elettori. Per eventuali reati ai magistrati. E’ certo però che la Lombardia governata da Formigoni – secondo i principi della dottrina sociale della Chiesa – è stata la regione più prospera, solidale ed efficiente d’Italia. Fra le prime d’Europa. Ma la storia cristiana è così. Da duemila anni. E’ fatta di uomini che si sentono umiliati per la propria miseria, ma la cui imperfezione è usata dal Signore dell’universo come piedistallo della Sua gloria.

Antonio Socci

Da “Libero”, 18 ottobre 2012

 

 «Quando Andrea (Aziani) veniva all’Annunciata a farmi giocare o ad aiutarmi a fare i compiti, mi diceva: “Guarda che c’è Uno che ti ama più di tutti e vale la pena vivere per Lui”. Dopo quarant’anni ho ancora nel cuore quel che ho vissuto con lui»

Negli anni a venire il nome di Giuseppe Albetti, e dei suoi fratelli, lo si troverà frammisto a diverse esperienze associative, scolastiche e professionali: come per esempio Famiglie per l’accoglienza, una rete di famiglie che si accompagnano nell’esperienza dell’accoglienza famigliare – adozione, affido, accoglienza, ospitalità, cura degli anziani e dei disabili – e la propongono come un bene per la persona e per la società intera. Nata nel 1982 a Milano, l’Associazione conta più di 3.300 soci in Italia e sedi in diversi Paesi del mondo. E ad Abbiategrasso chi pensate sia stato, il loro rifeirmento? Lo stesso Giuseppe Albetti che, ci raccontava ieri una giovane donna,  accolse una ragazza in procinto di fare la maturità, la mise in una stanza e  restituì un po’ di quella pace che un conto salatissimo del destino aveva presentato a quella ragazza, quand’era poco più d’una bambina.

Tra le tante passioni di Giuseppe Albetti c’era anche quella del canto nella splendida corale abbiatense dell’Associazione Nazionale Alpini, che ieri sera lo ha voluto ricordare così:

Purtroppo il covid ci ha privato di un Amico che, oltre ad essere stato un valido corista sin dalla sua nascita e per parecchi mesi, GIUSEPPE ALBETTI è stato per tutti noi e non solo un esempio di vita dedicando la sua vita per il bene del prossimo. Ciao Caro Amico aggiungiti agli altri coristi “Andati Avanti” e con loro continua a cantare le tue amate cante di montagna su nel Paradiso. I tuoi coristi del Coro A.N.A. Gruppo Alpini Abbiategrasso.
E DA ULTIMO, LA POLITICA

E ovviamente, tra i millanta campi dell’umano agire, c’era anche la politica, che ai fedeli del Movimento ha causato un oceano di accuse e critiche, quasi sempre malevole e fallaci, false. Poi certo, qualcuno con l’umana tentazione di ciurlare nel manico può esserci stato, ma questo non toglie che (soprattutto per noi lombardi) la presenza di Cl in politica, ci torniamo a breve, sia stata fatta più di luci che ombre.

La compresenza di due fratelli maggiori impegnati da decenni in politica (Carlo, il più grande, consigliere comunale e non solo; Roberto, ovviamente, sindaco, ora vicesindaco, consigliere del Parco Ticino, presidente di Ersaf Lombardia e molto altro) vedeva il minore dei tre, Giuseppe, sempre presente ma in modo discreto. Sorridente, prontissimo a coprire le retrovie.

Su Roberto Formigoni, che cogli Albetti vanterà e vanta un’amicizia reale costruita decenni fa, semplicemente vogliamo fare nostre la parole di un ex assessore delle giunte lombarde, Massimo Corsaro, per anni dirigente ed esponente di punta di Alleanza Nazionale, Pdl e proveniente dall’esperienza del Msi. Per nulla cattolico (anzi…), per nulla ciellino (anzi..), ma capace di vergare, su Formigoni, parole definitive. Queste.

Nella mia esperienza politica mi è capitato di assumere diversi ruoli, di partito ed istituzionali, a vari livelli. Come tutti, ho compiuto errori ed ho fatto cose buone; i primi sempre in buona fede, le seconde grazie ai tanti ottimi amici e collaboratori che mi hanno accompagnato.
Ma di tutto il lungo percorso, non ho mai fatto mistero che ciò che sempre mi renderà orgoglioso è di aver fatto parte – dal 1995 al 2008 – delle Giunte regionali lombarde guidate da Roberto FORMIGONI.
Arrivammo, nuovi di fronte all’immane sfida, all’indomani di un vero e proprio “tsunami politico-giudiziario” che aveva spazzato partiti e volti della prima repubblica.
La Regione era un’istituzione sconosciuta ai più, di cui pochissimi ricordavano il nome del presidente, quasi nessuno (parenti esclusi) quello degli assessori che ci precedettero.
Da subito, trasformammo il modo di fare politica, compimmo scelte noncuranti della diffidenza o dell’ostilità di chi intendeva conservare privilegi o particolarismi del vecchio sistema.
La Regione, ed il suo presidente in primis, divennero il punto di riferimento di tutta la società civile lombarda. A noi si rivolgevano imprese, associazioni, famiglie e cittadini, anche per le cose di cui non avevamo diretta e/o formale competenza. Nessuno rimase inascoltato, moltissimi ottennero soddisfazione nelle azioni e nelle risposte che mettemmo in campo.
Si realizzò la vera sussidiarietà, ovvero la compartecipazione tra istituzioni pubbliche e forze ed energie private, per rendere più efficienti le risposte ai bisogni della popolazione.
Partimmo dalla riforma della Sanità, con un lavoro che impegnò il Consiglio regionale per 2 anni e mezzo, con 3 giorni alla settimana di sedute, mattino,pomeriggio e sera. E con un ministro della Salute (Rosi Bindi) che ci avversava tanto da averci rimandato indietro la legge per 4 volte, sinché non ebbe più né argomento tecnico né sostegno politico per impedire che ai lombardi venisse concessa la “libertà di scelta” per le strutture in cui curarsi.
Da allora, in brevissimo termine, vi fu una drastica riduzione dei tempi di attesa, una competizione sulla qualità crescente tra tutte le strutture (pubbliche o private che fossero), la diminuzione della spesa pro-capite e l’invarianza di costo tra ospedali e cliniche a tutto vantaggio della scelta del paziente.
Ripetemmo lo schema sull’istruzione e sulla formazione, avendo sempre come bussola l’imperativo di mettere i cittadini in grado di scegliere per conto loro, senza che nessun politico o funzionario pubblico potesse interferire sulla vita personale di ciascuno; accompagnammo le imprese nell’internazionalizzazione; garantimmo loro canali privilegiati di accesso al credito; difendemmo le specificità di artigiani ed agricoltori; realizzammo una rete di supporto per le famiglie e per gli anziani; creammo la professionalizzazione nell’assistenza. Realizzammo infrastrutture in serie, dal raddoppio e quadruplicamento delle linee ferroviarie locali alla quarta corsia dell’A4, al progetto di Pedemontana, all’accordo per la realizzazione della Brebemi, all’apertura del Passante ferroviario, al rifacimento della strada per la Valtellina con il tunnel di Lecco e quello di Monza, a migliaia di interventi di carattere locale. Alimentammo la sostituzione dei mezzi di trasporto pubblico; attivammo le prime gare per l’assegnazione della gestione dei servizi di TPL, tanto su gomma che su ferrovia.
Collocammo stabilmente la Lombardia tra le 4 regioni “motore d’Europa”, con Catalonia, Rhone Alpes e Baden Wurttenberg.
Tutto questo decimando il numero dei dirigenti, riducendo quello degli addetti pubblici, falcidiando l’incidenza pro-capite per i nostri cittadini del costo di mantenimento della Regione.
Responsabilizzammo il nostro organico, attribuendo a funzionari e dirigenti il ruolo ed il compito di gestire, curare, controllare e firmare le delibere che successivamente sarebbero approdate in Giunta.
C’era, pur nella a volte aspra diversità delle forze politiche che partecipavano a quell’impresa, la comune convinzione di avere una missione da svolgere, per fare della nostra terra la prima della classe in tutto.
Ci riuscimmo, lo dovettero riconoscere – con colpevole ritardo – anche i più ottusi tra i nemici.
Ci riuscimmo, perché accompagnati da una splendida società di donne e uomini che remavano nella stessa direzione; perché ci muoveva l’intento di mostrare ai governi avversi (1995-2001 e 2006-2008) che un’alternativa era possibile, ed a quelli amici (2001-2006) che si può sempre fare meglio.
Ci riuscimmo perché non andammo mai a pietire nulla a nessuno, ma ci prendemmo il nostro spazio, giorno dopo giorno, anche a costo di litigare con chi comandava a livello nazionale nei nostri partiti.
Ci riuscimmo, mi piace dirlo proprio oggi, perché alla guida di tutto c’era un cavallo di razza della politica; sicuro di sé ai limiti dell’arroganza, concentrato sul lavoro tanto da apparire spesso algido nei rapporti umani con la sua stessa squadra, ostinato e determinato tanto da fornire a tutti i lombardi la certezza di essere guidati da qualcuno che realizzava concretamente le cose, e nel loro stesso interesse.
Vinse a mani bassi le elezioni regionali per 5 volte di seguito, prima e dopo fu parlamentare nazionale ed europeo; quando girava per le provincie lombarde era accolto dalla gente con entusiasmo quasi maniacale; e infatti a Roma non fu mai amato, perché non vi era dubbio che fosse di diverse spanne il più bravo di tutti.
Un uomo difficile, per le sue scelte, per il modo di esporle, per il mondo di appartenenza.
Non sono mai stato ciellino, e nelle discussioni politiche sono state più le occasioni in cui ci siamo scontrati che quelle che ci hanno visto dalla stessa parte. Ma abbiamo sempre trovato il modo di lavorare – e bene – insieme.
Ad un certo punto, lui privo di una vita privata “normale”, ha cambiato il modo di trascorrere il suo tempo libero; da campione della morigeratezza divenne personaggio sovraesposto, ed il passaggio dai ritiri spirituali alle spiagge esclusive non gli venne perdonato.
E questo, nessuno me lo toglie dalla testa, è ciò che ha alimentato il livore e l’azione giudiziaria che gli hanno follemente aperto le porte del carcere.
Un processo mediatico, interminabile, in cui mano a mano sono stati giustamente assolti tutti i coimputati che ricoprivano ruoli chiave nella gestione della sanità, perché tutto si è palesato secondo le norme vigenti. Alla fine, la sua condanna in solitudine, come se da solo avesse nottetempo scritto le delibere, le avesse approvate nella segretezza e quindi firmato gli impegni di spesa nell’ignavia generale.
Ma questa è una di quelle storie che, purtroppo, saranno rilette con distacco e serenità solo quando il peggio sarà stato fatto. La storia patria è colma di pentimenti tardivi da parte di chi asseconda miserabili istinti rivoluzionari.
No, non è per le delibere che lo hanno condannato, ma perché ha sostituito i calzini cadenti e slabbrati del giovane ciellino (vero marchio di fabbrica dei seguaci di Don Giussani, accomunati chissà perché da un’estetica sciatteria di fondo) con le giacche firmate (anch’esse improbabili, va detto); e perché anziché a Viserbella o a Roccacannuccia, si faceva vedere in Costa Smeralda o ai Caraibi.
E questo, francamente, mi fa ancor più schifo della conseguente speculazione politica. Il fatto che prevalgano l’invidia ed il livore del pezzente (d’animo e spirito più che di tasca), certifica come questo triste paese sia ben lontano dall’appartenere all’occidente libero e moderno.
Nel forte dispiacere per la vicenda umana che colpisce oltre misura una figura che resterà positivamente rilevante nella mia storia personale, mi è di sollievo il mitico Marchese del Grillo.
Perché Roberto resterà il miglior amministratore degli ultimi 50 anni, e la Lombardia vivrà a lungo sulla rendita del suo lavoro innovatore e modernizzatore. E chi oggi insulta, ironizza o festeggia per la sua caduta in disgrazia, continuerà a non essere un cazzo. Vermi anonimi la cui sempre troppo tardiva dipartita non lascerà traccia.
Fatti forza, amico mio.

E’ che, nel vortice del potere (reale) assunto da donne e uomini di Comunione e Liberazione, soprattutto in Lombardia (oggi e sempre più lontano ricordo, dacché le inchieste hanno pesato tanto quanto, e forse meno, della secolarizzazione di massa e della ridotta presenza dei cattolici nella vita sociale e politica, rispetto a un tempo) si è sempre pensato che ‘loro’, quelli lì, i ciellini, facessero solo politica, raccogliessero tessere, raggranellassero voti.

In realtà, quelli lì, quelli come Giuseppe Albetti, sono state persone capaci di farsi sempre delle domande. E di vivere, con luminosa pienezza, il  dono dell’Amicizia. Ché senza amicizia (come anche senza domande), sapete quant’è disperata una vita?

“Il problema vero è che la domanda è già un miracolo. È il primo modo della coerenza, del compimento di sé, della propria libertà. Il pregare è un miracolo e bisogna accettare il miracolo”. Don Giussani

“Ecco, ora scompaiono i volti e i luoghi. Assieme a quella parte di noi che li aveva amati. Per rinnovarsi, trasfigurati, in un’altra trama”. T.S. Eliot

Fabrizio Provera

 

 

 

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