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‘A Castano Primo con il maggiore Marino Marini’: le testimonianze dello Zodiaco

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E’ una storia che inizia nel lontano1941, con l’ingresso nell’Accademia Aeronautica a Caserta di 298 vincitori del concorso dello ‘Zodiaco’, giovani avieri che, dopo aver frequentato un corso per allievi ufficiali, sarebbero diventati la spina dorsale dell’Arma. Le vicende politiche che seguirono (8 settembre) polverizzarono il futuro di quei giovani ‘repubblichini’, la cui memoria è stata raccolta in un libro che ci è stato segnalato dall’avv. Luisa Vignati, scritta a tante mani, da coloro che riuscirono a scamparla. (http://libro.corsozodiaco.it/04_una_scelta_difficile.pdf)

In questo modo tante vite sono state rivissute, come ha scritto un di loro, ‘prima di spiccare il volo finale’: PER L’ONORE DELL’ITALIA – “Prima di spiccare il volo finale, abbiamo voluto onorare tutti coloro dello Zodiaco che, sotto ogni insegna, hanno lealmente operato, combattuto, sofferto e spesso donato la giovane vita per ciò che hanno creduto essere il bene della Patria. E questo vale per i riconosciuti e ancor più per i dimenticati. Abbiamo voluto gridare la nostra verità, che non poteva apparire se avessimo tentato di edulcorare gli avvenimenti, in omaggio alla ‘vulgata’ di questi ultimi cinquant’anni. Noi sappiamo di non poter essere accusati di alcuna crudeltà e di alcuna bassezza. Al contrario, abbiamo pagato molto caro per la viltà e la violenza in cui eravamo immersi”.

Pubblichiamo il ricordo del ‘repubblichino’ Loris Pachera che percorse le nostre contrade qualche giorno dopo la Liberazione, contenuto nel libro on-line citato:
A Castano Primo con il maggiore Marino Marini
26 Aprile 1945 – Siamo isolati, circondati da ribelli e neoribelli. Anzi adesso non si tratta di ribelli. Sarebbe ormai ridicolo pensare a milioni di ribelli e a qualche centinaio di regolari. L’Italia è insorta, agli ordini del C.L.N. Le maggiori città sono nelle loro mani, pare. Per noi c’è l’ordine di arrendersi o perire. Pare, quasi certo, che quasi tutti i presidi armati interni della Repubblica abbiano ceduto le armi. Noi siamo soli, il maggiore Marini ha patteggiato temporaneamente con loro. Ma è evidente che la cosa è di brevissima durata. Se gli inglesi arriveranno tra poco potremmo senz’altro opporre una resistenza fino al loro arrivo. E darci a loro, i vincitori. Così, senza ordini, senza speranze, dobbiamo resistere o svestire la divisa? Finora non ci siamo fatti disarmare ma tra qualche ora potrebbe verificarsi l’eventualità. …omissis…
I viveri sono quasi finiti. Lentamente tra gli ufficiali si è presa la decisione. Andarsene. Loro in questo caso ci lasciano liberi. Gente che ha combattuto e ha sfidato per anni ogni pericolo. Derisi. Vilipesi. La truppa è pronta a resistere. Noi non siamo dei vigliacchi. …Se ci fosse una sola speranza, un solo ordine…Quale ventura per me se in questo momento fossi al fronte! …omissis…
Noi abbiamo ragionato male. Han fatto male a morire i nostri compagni. C’è ancora qualcuno al fronte che combatte per la R.S.I.? Esiste ancora un fronte nostro? Esiste ancora orgoglio nei nostri animi? Dobbiamo morire noi oggi o serbarci per il domani? E devono con noi morire quei ragazzi che sono con noi? Ancora una volta raminghi per la campagna. Ancora una volta ritornerò a casa in borghese. Con la fronte bassa, perché ho amato sopra tutto la Patria, quella dell’onore, perché ho offerto la vita per essa? E la fede che ardeva nel cuore di tutti noi. Esiste ancora? …omissis…
Ma noi non possiamo resistere a lungo perché non abbiamo viveri. Se resistiamo, poi dicono che ci ammazzano. Possiamo noi assumerci la responsabilità della vita di tanti ragazzi? E se alla fine dobbiamo cedere le armi, perché non c’è via di uscita, perché non cederle subito, salvando la vita?
Ho riprodotto fedelmente, anche se parzialmente, questo secondo brano del mio vecchio diario. Che non descriveva avvenimenti, salvo eccezioni, ma soltanto i miei pensieri e i miei stati d’animo. In questo caso tuttavia mi è sembrato lecito offrire al lettore, senza forse annoiarlo, un quadro spontaneo e immediato del tormento psicologico e della passione patriottica di uno fra quelli della R.S.I. , in quei momenti tragici. E, visto che ci siamo, mi permetto anche di accennare rapidamente al seguito di questa storia.
Il Maggiore Marini si accordò con i partigiani che ci circondavano, per una onorevole resa. Non ricordo, o non ho mai saputo, i particolari. Mi ritrovai per la strada, solo e a piedi, diretto verso il paese di Arconate, nelle vicinanze, dove una mia compaesana abitava, sposata al proprietario di una osteria del luogo. Mi sarei rifugiato da lei, in attesa di poter tornare a casa, in provincia di Mantova, senza gravi pericoli. Fui fermato e perquisito da un gruppo di giovani partigiani, probabilmente, e per fortuna, di quelli dell’ultima ora. Avevo un lasciapassare e, mi sembra, una pistola. Mi disarmarono e mi lasciarono proseguire. La sera stessa, o la successiva, stavo nel fumoso stanzone dell’osteria, piena di gente, leggendo un libro, in attesa di andare a letto. Gli alleati erano arrivati. Un gruppo di soldati americani entrò nel locale. Uno di loro, ricordo che aveva la pelle alquanto scura, forse era già alticcio, o forse no, si diresse verso di me, estrasse la pistola e mi sparò un colpo. Ebbi il piede destro trapassato dalla pallottola. Immagino che i presenti sapessero che io ero un repubblichino. Immagino anche che qualcuno abbia avvertito gli americani della presenza di un fascista nemico in quel posto. Non ho mai cercato di scoprire come si erano svolte le cose. Dopo un po’ arrivò un medico (credo). Mi infilò una garza imbevuta di alcol dal foro d’entrata e, se non ricordo male con l’aiuto di una stecca, la estrasse dal foro d’uscita. Fu il momento meno piacevole della mia storia di soldato. Un po’ più tardi un automezzo, credo americano, mi trasportò in un ospedale vicino. Mi lasciarono davanti al portone di entrata. Qualcuno uscì e fui sistemato a letto in uno stanzone pieno di partigiani feriti. Fui curato, nel senso che mi fecero una ingessatura chiusa a stivaletto senza possibilità di accesso alla ferita, ancora aperta. Allora io non sapevo delle possibili conseguenze di questa particolare terapia. E naturalmente non saprò mai se questa “cura” è stata voluta, dato che si trattava di un paziente nazifascista. Infatti avvertivo l’atmosfera fortemente ostile che mi circondava, e udivo le minacce non molto velate dei miei compagni di camera. Qualcuno tuttavia aveva pregato per me: dopo qualche giorno arrivò mio fratello, Ufficiale dell’Esercito e Vicecomandante di una brigata di partigiani nel Mantovano. Aveva saputo dove ero, ed era riuscito a procurarsi una macchina dotata di partigiani sulle predelle e di tricolore sul cofano, in grado di attraversare indenne nel caos di quei giorni la pianura padana (ma non fu facile nemmeno per lui) e di riportarmi a casa. All’ospedale di Mantova mi tolsero immediatamente il gesso e mi curarono con perizia. Dopo qualche tempo ero pronto per iniziare a Padova il triennio di applicazione di ingegneria elettrotecnica, avendo ottenuto il riconoscimento di quasi tutti gli esami del biennio fatti a Caserta. Ma questa è un’altra storia.
Gennaio 2000 LORIS PACHERA

NB. Quello che dà motivo di riflessione, leggendo le storie contenute ne libro, è che piloti come Alberto Rizzo, Alfredo Paganella, Valerio Stefanini, Adriano Visconti, incolpati di ‘essere fascisti’ furono uccisi anche nei giorni successivi alla Liberazione, mentre Imerio Bertuzzi – che era uno di loro, un asso dell’aviazione nazionale repubblicana – fu il pilota personale di Enrico Mattei, perito insieme al Presidente il 27 ottobre 1962 a Bascapè.

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