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Coraggio Nick (Kyrgios), it’s only tennis… and rock’n roll- di Teo Parini

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Agonisticamente parlando, se ne sono perse le tracce ormai da un anno. L’ultima apparizione apprezzabile, infatti, risale allo scorso gennaio quando nello Slam di casa Nick Kyrgios da Canberra si è arreso, dopo qualche buona performance, a Thiem.
Un altro che, sebbene per motivi antitetici, il campo lo ha visto poco negli ultimi dodici mesi. Per la verità era riapparso già a Londra prima dell’estate, ma, dopo una deliziosa contesa con un ottimo attore non protagonista come Humbert, le batterie intrise di birra hanno precocemente detto basta. Tornei a parte, del 2021 di Kyrgios sappiamo invece tutto perché, a differenza dei playground, i social li frequenta con la perseveranza di un venticinquenne esibizionista il giusto, dunque molto. E così, almeno di riflesso, l’universo tennis, reso insipido da giocatori brutti in partita e noiosi nella vita, si regala qualche momento scevro dalle consuete banalità.

Nick e il “cosa sarebbe stato se…” è il tormentone stucchevole che periodicamente ci accompagna da quando, durante l’edizione 2014 di Wimbledon, il mondo si rese conto di trovarsi al cospetto di uno che la storia del gioco che fu pallacorda la potrebbe rinverdire senza snaturarne i connotati più antichi, quelli della bellezza. Ma è appunto con i se che non si edificano le certezze e così, ormai otto anni più tardi, siamo qui a raccontare senza troppi patemi d’animo una vicenda diversa da quella preannunciata da cromosomi speciali, ovvero quella del giocatore per distacco più talentuoso del circus che, per motivi peraltro condivisibili, al tennis sceglie ogni volta di anteporre una discreta quantità di alternative. Sorprende, anzi stufa, che ancora oggi molti addetti ai lavori, o presunti tali, non lo abbiano inquadrato, incapaci di riconoscere tra le pieghe di una personalità bizzarra la sensibilità di chi si nutre di vita.
Intanto perché, parafrasando lo stesso Kyrgios, il tennis non gli è mai piaciuto. Non ne ha mai fatto mistero: avrebbe venduto l’anima pur di avvicinare la magnificenza di Kobe Bryant, il suo vero idolo, e portare l’Australia del basket laddove non era mai stata. Ma, più che con la palla a spicchi, è con la racchetta che gli è sempre riuscito tutto estremamente facile e ciò deve aver suggerito all’indolenza fatta uomo il tennis quale strada meno impervia per darsi un mestiere. Tuttavia, Nick sposa fin da subito il mantra per il quale si lavora (poco) per vivere (meglio) piuttosto che il viceversa e il risultato è una carriera archetipo di luminescente estemporaneità, che al confronto la cadenza della cometa di Halley pare essere prevedibile. Un peccato, ma solo per i drogati dagli almanacchi, perché agli esteti avvezzi a ogni forma di bellezza è sufficiente godere con casualità del tennis sopraffino di Kyrgios quando c’è e di sapere che le conseguenze del professionismo malato non abbiano di che inflazionare la sua esistenza policroma.
Perché quello che i più definiscono sbruffone, magari per un po’ di agitazione che inframmezza un suo quindici e l’altro o l’ora tarda tirata in un pub la notte prima di un incontro, tra la soddisfazione individuale, quindi effimera, e la diffusione planetaria della sua fondazione dedicata a garantire la possibilità di fare sport ai bambini meno fortunati, per esempio, la scelta su dove canalizzare le energie cade sempre orgogliosamente su quest’ultima. Anche se il prezzo da pagare – alto, ma non per lui – è di veder primeggiare sul trono del tennis un Djokovic qualunque che, con rispetto parlando per le scelte di ciascuno, è giocatore che sa fare dannatamente bene la metà delle cose che è in grado di fare Kyrgios. Anche perché durante i mesi più terribili della pandemia e con il mondo fatto a brandelli da un virus, mentre i colleghi si prodigano per non sacrificare nulla della stagione, lo scapestrato aussie gironzola per le strade di Canberra assicurando i generi di prima necessità alle persone invischiate nella battaglia alla malattia. Questione di priorità.
Tornando al tennis giocato, capito che da Kyrgios è sempre salutare non aspettarsi mai nulla salvo sorridere quando inanella cinque vittorie in fila e si prende un torneo che ha scelto di giocare durante una partita notturna al videogame, viene quasi voglia di ricordare perché ci si possa innamorare di lui. Con Djokovic – nulla di personale ma sarà il giocatore più vincente di sempre e dunque metro di paragone – non ci ha mai perso e vorrà pur dire qualcosa. Federer e Nadal li ha battuti più volte e, quando non l’ha fatto, ci è andato più vicino di qualunque altro. Contro quelli della sua generazione, poi, potrebbe vincere bendato se solo si presentasse al circolo con tre ore di sonno alle spalle, cosa che, appunto, non succede spesso.
Le ragioni tecniche della passione che può ingenerare sono relativamente semplici. Nick ha una velocità di crociera nello scambio che è difficilmente eguagliabile, costruita su due fondamentali, dritto e rovescio, che per fluidità, ritmo, penetrazione ed efficacia si collocano ai primi posti di una virtuale classifica di merito. Il talento, cioè la capacità di compiere con semplicità azioni precluse agli altri, lo porta a impattare colpi pesanti come macigni in apparente assenza di sforzo, liquidi come direbbe il compianto scrittore Wallace. Rovescio tirato piatto, senza rotazione, una palla da flipper. Dritto imprevedibile, perché capace di esplorare ogni effetto riconosciuto dalla fisica: pulito come un colpo di cannone, arrotato come una scheggia impazzita, tagliato come la lama di un rasoio. Tutto senza l’uso delle gambe, perché non si dica che Kyrgios conceda qualcosa alla fatica, e chi a tennis un po’ ci giochicchia sa quanto sia difficile tenere la palla in campo in quelle condizioni di instabile equilibrio. Il resto è lo show assicurato dalla mano destra più educata che abbiamo avuto modo di apprezzare da diversi anni a questa parte. Che può essere piuma, quando accarezza una volée, e può essere ferro, quando scaglia un ace a duecento e più chilometri orari.
La morale è che a questo ragazzo hanno chiesto a più riprese di diventare un campione, un desiderio che ha attraversato il pensiero egoistico di molti fuorché quello del diretto interessato. Il tennis, segreto di Pulcinella, è disciplina che impone privazioni maniacali anche ai depositari delle più elevate qualità tecniche e Kyrgios, appartenente per genesi a questa ristretta categoria, non è disponibile a sacrificare nulla di ciò che ha intorno. E forse, per com’è fatto, una mentalità differente non avrebbe potuto nemmeno costruirla. Lui, in ogni caso, rimpianti non ne ha, perché mai dovremmo averne noi?
Buona vita, Nick. Se capita, ci vediamo a Wimbledon: la birra la mettiamo noi.
di Teo Parini

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