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Sette minuti, Egan! Quando la mistica corre su due ruote, di Teo Parini

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Charles Darwin, padre della teoria dell’evoluzione, coniò, o almeno così si dice, l’adagio celebre dell’uomo nobilitato dal lavoro capace di conferire dignità morale. I secoli che ne hanno fatto seguito, purtroppo, hanno spesso raccontato una storia diversa ma per chi di professione ha scelto il ciclismo con specializzazione da gregario il naturalista ci aveva visto lungo: la fatica spesa senza riserve al servizio del capitano è infatti arte che impreziosisce.
Possiamo vivere nel mondo una vita meravigliosa – disse Tolstoj – se sappiamo lavorare e amare: lavorare per coloro che amiamo e amare ciò per cui lavoriamo. E ripercorrendo il pensiero dello scrittore russo, per chi il ciclismo è insostituibile paradigma di vita, sovviene un’istantanea di questo 2021 ormai agli sgoccioli che compendia ciò che non si insegna ma che fa di un fedele gregario la quintessenza, appunto, della nobiltà. Quella sportiva e umana insieme.

Prima di rivelare i protagonisti, è bene ricordare che, a differenti livelli di importanza e ufficialità, sono in molti nel settore a indire graduatorie di merito proprio per chi, secondo parametri variegati ma che in un modo o nell’altro si rifanno al cuore, più tutti si è distinto nel proletariato della bicicletta e magari non ha mai vinto nemmeno una corsa. All’uopo, una nota rivista colloca sul podio virtuale stagionale tre atleti che gli aficionados del pedale riconoscerebbero più da una gestualità tipica ripetuta all’infinito che da un volto difficilmente protagonista delle copertine. Gente che tira il gruppo a testa bassa, si carica le tasche di borracce da distribuire ai compagni e fa la spola con l’ammiraglia immagazzinando informazioni e consigli, scherma con il corpo il vento e la polvere, scandisce il passo in salita secondo velocità stabilite a tavolino, insegue gli indisciplinati, ricuce gli strappi, sbuffa e si consuma. Per dirla come Petri, quella classe operaia che va in paradiso.
Secondo e terzo, allora, sono rispettivamente Morkov, il direttore d’orchestra delle volate, e Declercq, la locomotiva umana. Ragazzi che valgono oro quanto pesano. Per il gradino più alto, invece, c’è da fare un salto a ritroso fino alla scorsa primavera, quando le strade si tingono di rosa. Il suo non è un premio all’annata, anche se potrebbe esserlo per l’impegno profuso sui trecentosessantacinque giorni, ma alla sublimazione di un frangente. Il Giro d’Italia ha un padrone apparentemente inscalfibile: Egan Bernal, il predestinato con la schiena di cristallo. Bello, anzi bellissimo, ma fragile. La salita finale di una giornata ascrivibile a quelle da ricordare conduce il plotone sulla Sega di Ala, terreno di conquista per i grimpeur di razza. In fuga solitaria c’è Martin, un vecchio marpione che non ha dimenticato come anticipare i più bravi. Dove ci si gioca la leadership, un poco più indietro, è Yates che prova a fare saltare il banco. Bernal, coadiuvato dal team, controlla ma al terzo scatto dell’inglese succede l’imponderabile. Egan perde un metro, poi due. Il viso si fa una maschera di fatica, le gambe non rispondono, il corpo si accartoccia sul manubrio. Crisi nera e Giro d’Italia che pare scappare via come sabbia per le dita.
La provvidenza ha però un nome: Daniel Martinez. Colombiano anch’esso, è uno che in salita fila come un treno tanto che nell’uno contro uno, quando la strada si arrampica sotto alle pedivelle, sono in pochi a potergli resistere. Però fa il gregario di lusso e ha il compito di scortare Bernal proprio in giornate di questo tipo. Con la coda dell’occhio scorge per primo la defaillance del compagno e gli si pone immediatamente davanti a scandire un passo che ne possa scongiurare la deriva. Niente, Bernal non ne ha più e perde anche le sue ruote. Tutto sembra volgere verso il peggio quando Daniel, l’angelo custode, rallenta, si volta, stacca la mano destra dal manubrio e la chiude nel pugno che agita a un palmo dal naso di un Egan trasfigurato nello sguardo. “Due chilometri, mancano solo due chilometri!”, urla Daniel, un incitamento che squarcia la vallata. Qualcuno scatta una fotografia che immortala la coppia sudamericana in un momento che è storia perché archetipo di devozione alla professione e passione.
“Sette minuti, Egan”, insiste Martinez, con un motore in dotazione che gli consentirebbe un successo personale ma il cui pensiero di gloria individualistica non lo sfiora neppure. È la svolta: la pedalata di Bernal trova nuovo vigore e lo sguardo si illumina di una luce ormai insperata perché, manco a dirlo, è la testa che muove le gambe e i pensieri rinfrancati dal calore tangibile del gregario si fanno di nuovo positivi. Chiusa la tappa indenne, Bernal porterà la maglia rosa fino a Milano, da vincitore.
Nobiltà, dunque. Anni fa ci fu un direttore del Tour de France che con spocchia tipicamente transalpina sosteneva come fosse la Grande Boucle a fare grandi i ciclisti e non viceversa e, almeno in parte, aveva ragione. A far ancora più grande una disciplina luminescente per genesi, invece, sono proprio le storie che i Martinez del mondo ci consentono ogni volta di raccontare. Perché, incastonato nell’operato del gregario, c’è sempre un grande miracolo: quello di fare dello sport che glorifica la solitudine estrema una questione di squadra, o di famiglia se preferite, che risponde alla regola di Tolstoj: lavoro e amore.
Teo Parini

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