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I morti e Beppe Fenoglio – di Emanuele Torreggiani

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“Pioveva su tutte le langhe, lassù a San Benedetto mio padre si pigliava la sua prima acqua sottoterra”, testualmente così l’incipit più formidabile della letteratura italiana del dopoguerra, opera di Bebbe Fenoglio, “La malora”, 1954.
Un attacco intimo ed epico. Intimo, per il fatto in sé, comune a chiunque: la morte del padre; epico, per la struttura spirituale che il profondo dolore manifesta: la narrazione. Ed in quel dettaglio “lassù” si coglie appieno la grandezza di questo sovrano scrittore, non indica semplicemente l’orografia territoriale in riferimento, ma acropoli del tempo che si abita a tempio, dimora di Dio. Il luogo più alto della collina dove il bronzo verdica a lutto amalgamandosi alla spoliata mite natura d’autunno, immersa dalla dura battuta di una fredda pioggia, quella che ora e ancora batte di là dai nostri vetri, dilavando il cartoccio del platano, l’arriccio del tiglio, l’opaco smeraldo del carpino che ultimo, lascerà andare ogni foglia alla terra nel divorio dell’inverno maturo, mentre il primo pettirosso attacca il suo chiamo metallico ad un cielo grigio appena velato da un riverbero di un sole più che lontano, assente. Ceri e fiori sulle tombe risplendono di non effimera luce. E nell’orazione ancorché abbozzata, strascicata o recitata, ecco che in ciascuno, lì distratto o assorto, compare quella “prima acqua”, battesimo, intimo ed epico, con la prima morte.
Così lungo le viottole che diramano organiche tra le tombe ed i falansteri mortuari, i ritratti, autobiografie narranti, accompagnano in solido silenzio il nostro passo chino. “La cosa più interessante, nella vita, è la morte”, scrive Ivan Turghenev in “Padri e figli”. Un classico, tale perché capace di narrare ad ogni classe d’istruzione: dalla modesta alfabetizzazione alla verticale, la verità conficcata in ogni singolo battito di cuore: “La prima acqua”.

Emanuele Torreggiani

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