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Hannah Arendt e Martin Heidegger: un amore- di Emanuele Torreggiani

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Hannah Arendt amò, di quell’amore corrisposto che compone l’affinità elettiva, Martin Heidegger. Sovviene di lei, e inevitabilmente l’immagine cristallizzata di Paul Celan che scavalca il parapetto del ponte Mirabeau, in quella Parigi del 1957 che non era più una “festa mobile” (Hemingway) quanto i resti della “suite francese”, (Nemirovsky) e si lancia nella Senna per annegarvi.
 

Era estate. La stagione che in apparenza repelle la morte e n’è fradicia. Come disossano gli insetti, nella metamorfosi baconiana, nulla si crea e nulla si distrugge ma tutto si trasforma. Sovviene di lei sfogliando una rivista, quelle da abbonamento, con una foto sua, già anziana, in America dove, ah, in sottotraccia la lezione di Heidegger così profonda nel di lei dire: “la società di massa non vuole cultura ma svago”. Tutto qui, in sintesi molecolare, il genetismo del nostro mondo. Svago. Commoventi invero le foto dei bimbi deportati per essere subito assassinati, commoventi e bellissimi, i bimbi hanno tutti questa caratteristica, la bellezza ancora dell’increato in formazione, una commozione che nasce sboccia e appassisce nell’attimo del vedere le foto seppiate, il sentimento del sentimentalismo: ma com’è stato possibile? quanta indifferenza… quasi che il tempo sia al remoto nella sua svagante lettura diacronica, ma il tempo è profondo e presente. Il tempo non passa, non è un passare il suo, il tempo si manifesta nell’evento. E per vederlo, l’evento, occorre uscire dallo svago del sentimentalismo ed entrare nel “sentimento del tempo” (Ungaretti). Entrare accompagnati da quei libri in cui le parole sono uomini. Dante viene accompagnato da Virgilio (spirito magno) che gli dispiega ogni incontro: stazioni in cui il tempo si fa per quello che è: uomo. Infatti Dante si rivolge alla Madonna come alla mamma. “Mamma, cosa devo fare?”, così il concreto della sua invocazione. Un uomo alla mamma. Ed ogni uomo, per quanto adulto, davanti la sua mamma è sempre il bambino ancora in formazione. Dunque: Hans Fallada “E adesso pover’uomo”, Weimar, 1932. Lì il germinale dell’aurora che distruggerà, in un decennio, la immensa cultura latino germanica, la disperazione proletaria. Lion Feuchtwanger: “I fratelli Oppermann” 1933; affresco prospettico della società altoborghese, testo che, anticipando la true novel americana degli anni ‘50, quella di Meyer Levin con “Compulsion” e di Truman Capote con “A sangue freddo”, costò all’autore una condanna a morte che sfangò emigrando di corsa, anche lui in America. Hans Fallada: “Ognuno muore solo”, 1946, la sua ultima opera la cui fatica gli costò la vita, chiudendo l’ultima riga. Lì si trovano tutte le risposte alle domande su come sia stato possibile. Si poteva tutto, a costo della vita. E la vita è forte. In ultimo Irene Nemirovsky: “Suite francese”, 1942- (pubblicato postumo, nel 2005) lì, e solo lì, la presa diretta dell’ingresso dei vincitori in Parigi. Ci sono tutti, meglio ci siamo tutti. Tutti. Una danza vivace, ora allegra, ora lenta, ora solenne. Mai titolo così congiunto la testo. No, non c’è più nulla di quel vivere da “Festa mobile” di Ernest Hemingway, dove alla fine ci si ritrova al Select per un aperitivo che un amico o uno sconosciuto passerà a pagare.

No. in Suite la vita si prende la vita. nessuno vuole morire. Questo è tutto. Nessuno. Siamo noi. Il resto sentimentalismo. E siamo ancora noi. adesso. Foto, poverini, come erano cattivi. Hannah Arendt: “la società di massa non vuole cultura ma svago”, la vita è bella. Comprensibile l’estate di Paul Celan.

Emanuele Torreggiani

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