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Dall'archivio:

20 anni senza Fabrizio De Andrè. Troppi. Una vecchia intervista ed un video

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L’11 gennaio del 1999 si chiudeva l’esistenza terrena di Fabrizio De Andrè, il più grande cantautore italiano dell’ultimo secolo. Un’assenza mai così presente, anno dopo anno, giorno dopo giorno, che genere purtroppo omaggi postumi di infimo livello e produzioni (librarie, musicali) imbarazzanti. ‘Colpa’ della cifra stilistica, musicale e letteraria senza alcun paragone dell’artista nato a Genova, innamoratosi della Sardegna, padre di Cristiano e Luvi, marito di Enrica ‘Puny’ Rignon e poi, sino alla morte, della cantante Dori Ghezzi. Ci sono pochissimi libri e pochissimi autori cui vale la pena affidarsi per addentrarsi nella mistica deandreiana: Luigi Viva, Cesare G. Romana, il recente film ‘Principe Libero’, il docu film del 2012 ‘Faber in Sardegna’ sono tra quelli, tra i pochi. Come lo spettacolo cui abbiamo assistito ieri all’Alcatraz di Milano: De Andre 2.0. E poi, ovviamente, ci sono le sue canzoni.. Abbiamo scelto di riproporvi, dagli archivi Rai, una intervista molto bella realizzata da Giancarlo Susanna ed un video con Fabrizio e Dori nella loro tenute sarda dell’Agnata, dove furono rapiti nel 1979, l’episodio della loro vita a cui scaturì la splendida Hotel Supramonte. Buona lettura e buona visione.

F.P.

(Di Giancarlo Susanna)

A prescindere dalla sua bellezza e dalla profondità dei suoi contenuti, qualità senza dubbio poco comuni nelle uscite discografiche italiane di questi ultimi tempi, Le nuvole ha il non trascurabile merito di aver riportato all’attenzione dei più la figura affascinante e misteriosa di Fabrizio De André, forse il più importante e originale dei nostri cantautori. Fin dai suoi esordi – il primo 45 giri, Il testamento, è del 1962 (1) – De André è stato il cantore amaro e sferzante della lotta contro la falsità e il perbenismo del potere borghese. Le sue canzoni più famose ed amate, da Via del campo a La città vecchia, da Bocca di rosa alla Canzone dell’amore perduto, sono state per molti (compreso chi scrive) il primo, bruciante contatto con una cultura diversa e opposta a quella appresa sui banchi di scuola. E se per comprendere Bob Dylan, Leonard Cohen o Georges Brassens si doveva superare l’ostacolo della lingua, per capire Fabrizio era necessario prima di tutto trovare i suoi dischi. Impresa non facilissima, perché il suo nome, odiato dai benpensanti e bandito dalle trasmissioni radiofoniche e televisive, circolava come quello di un leader romantico e un po’ maledetto tra pochi e delissimi “carbonari”. E’ un merito che bisogna riconoscergli, questo, anche perché la sua indiscutibile bravura nel comporre musica e versi avrebbe potuto fruttargli un successo facile e immediato, come dimostra l’inossidabile Canzone di Marinella. Di cose simili avrebbe potuto scriverne molte, e invece Fabrizio – sulle copertine dei suoi primi dischi era chiamato semplicemente così – non ha mai rinunciato ad essere se stesso, affrontando di volta in volta, magari a distanza di anni, argomenti scomodi e impegnativi, dalla cantata dolente di Tutti morimmo a stento alla rilettura personalissima e toccante dei Vangeli Apocrifi della Buona Novella, dall’omaggio a Edgar Lee Masters di Non al denaro, non all’amore né al cielo alla parabola sofferta di Storia di un impiegato. Ci aveva ancora stupito e meravigliato, sei anni fa, con Creuza de mä, un album di straordinaria e solare bellezza, tutto imperniato sulla musicalità della lingua genovese e sulle sonorità etnico-magiche dell’area mediterranea. Ci aveva conquistato con la sua lucidità, con l’entusiasmo e il coraggio un po’ incosciente che un autore potrebbe mettere nella sua opera prima e che, nel caso di Fabrizio, erano testimonianza di una grandissima vitalità intellettuale ed artistica. Di quel disco azzardato e bellissimo parlarono tutti con scetticismo e perplessità, ma alla fine Fabrizio dimostrò di aver avuto l’intuizione più giusta e finì coll’essere (giustamente) considerato un precursore del rilancio del “suono del Mediterraneo”. Poi il silenzio. Appena interrotto da notizie frammentarie e incomplete (la “carboneria” di cui si diceva esiste ancora) che lo volevano nuovamente in studio con Mauro Pagani, suo amico e collaboratore da tantissimi anni. Poi l’attesa. Mentre Creuza de mä diventava un successo anche in termini puramente commerciali e la Ricordi pubblicava l’ennesima antologia. Le nuvole, distribuito nei negozi alla fine dello scorso settembre dopo una serie di rinvii, è arrivato infine a tranquillizzare e poi a entusiasmare gli estimatori di Fabrizio. E’ un disco estremamente complesso, che può essere ascoltato e sviscerato in mille modi e che, al tempo stesso, ha in sé l’energia e la forza di un pugno nello stomaco. Ed è, anche per questo, un’opera differente e atipica in un panorama musicale spesso statico e poco originale. Fabrizio De André si conferma con Le nuvole come una voce isolata e coraggiosa, sincera fino a ferire chi ascolta, capace come poche altre di provocare riflessioni sulla realtà che ci circonda e talvolta ci soffoca. Il suo rigore è lo stesso di sempre, ma lo stile tagliente che già conoscevamo sembra anco più affilato e crudele. Il progetto dell’album prevedeva un ritorno all’uso dell’italiano che non escludesse tuttavia il genovese di Creuza de mä e alla fine il “concept”,l’asse portante di tutto il lavoro, ha finito con l’includere due canzoni in napoletano e una in gallurese. Ci sono dunque le nuvole, che come ci dirà lo stesso Fabrizio, rappresentano gli uomini che incombono sulla nostra vita e ci impediscono di vedere la luce, e ci sono coloro che quest’ombra pesante subiscono senza quasi reagire. Sono loro, rappresentanti di un popolo non ancora schiacciato dall’omologazione culturale, a esprimersi con una lingua ricca di suggestioni e poesia, una lingua che è in un certo senso l’esatta antitesi del povero e incomprensibile italiano televisivo. La parola ha per Fabrizio De André un valore straordinario (è capace, come ci ha detto Ivano Fossati, di impiegare quattro o cinque giorni solo per trovare un aggettivo), ma Le nuvole non è soltanto un disco di parole e con parole, è un incredibile e sorprendente “catalogo” della migliore musica italiana. Dall’opera buffa di Ottocento, ritratto impietoso di una nuvola particolarmente odiosa, all’incedere napoletano di Don Raffaè, in cui la guardia carceraria Pasquale Cafiero si raccomanda al boss della camorra, dall’agghiacciante atmosfera della Domenica delle salme al fluire travolgente ed emozionante di Mégu mégun, A çimma (ambedue coni testi scritti insieme a Ivano Fossati) e Monti di Mola, che narra la storia d’amore tra un bel giovane bruno e un’asina. La stessa cura meticolosa che Fabrizio mette nel suo lavoro è il tratto fondamentale di tutti i suoi contatti con la stampa. In un momento in cui è tanto facile parlare a vanvera, parlare troppo e straparlare gli dobbiamo anche questo.

D. Il lungo silenzio tra Creuza de mä e Le nuvole ha creato una grande attesa tra tutti i tuoi estimatori. Come mai Le nuvole ha richiesto tanto tempo per essere completato? R. Ho avuto semplicemente altro da fare. Mi è capitata una serie inenarrabile di disgrazie che ho cercato di dimenticare in qualsiasi modo che non fosse quello di far canzoni. Perché per fare canzoni occorre riflettere ed ogni volta che riflettevo il dolore veniva a galla, si gonfiava come una torta nel forno. Mauro (Pagani) da parte sua aveva i suoi problemi. E’ solo due anni fa che ci siamo messi seriamente a pensare di lavorare ad un nuovo album.

D. Quanto è importante per te il parere della critica? R. Purtroppo la critica sta diventando una faccenda sempre più privata tra noi e voi. non vorrei che finisse per risolversi in una forma di corrispondenza, peraltro utilissima. La quasi totalità di coloro che dovrebbero essere ascoltatori è diventata una massa di videodipendenti:così si acquistano i dischi a seconda del numero e della frequenza con cui i venditori ambulanti riescono ad entrare nelle case attraverso la televisione per reclamizzare i loro prodotti.

D. Ti aspettavi che Creuza de mä sarebbe stato accolto con tanto (giustificato) entusiasmo?R. Appena uscito, Creuza non sollevò nessun tipo di entusiasmo che non fosse quello di qualcuno di voi critici. La casa discografica non ci credeva, qualche rappresentante mi chiese se ero diventato matto ed in particolare il venditore della Liguria mi fece sapere, stizzosamente, che neppure a Genova c’era qualcuno che ci avesse capito un cazzo. Nel giro di un paio di mesi Creuza aveva venduto qualcosa come 45.000 copie, perfettamente corrispondenti alle previsioni mie e di Pagani. Poi vi ci siete messi voi, a dire che Creuza era un capolavoro, a riempirci la giacca di medaglie fino a quando la gente prima si è incuriosita e poi ha cominciato ad apprezzare. Così le prima 45.000 copie sono diventate le oltre trecentomila di oggi. E questo ve lo dobbiamo, ma purtroppo, come ti dicevo prima, credo sia imparagonabile l’attenzione alla critica di sei anni fa con quella di oggi.

D. Vorrei che mi spiegassi il riferimento alle Nuvole di Aristofane. R. Le Nuvole, per l’aristocratico Aristofane, erano quei cattivi consiglieri, secondo lui, che insegnavano ai giovani a contestare; in particolare Aristofane ce l’aveva con i sofisti che indicavano alle nuove generazioni un nuovo tipo di atteggiamento mentale e comportamentale sicuramente innovativo e provocatorio nei confronti del governo conservatore dell’Atene di quei tempi. La Nuvola più pericolosa, sempre secondo Aristofane, era Socrate, che lui ha la sfacciataggine di mettere in mezzo ai sofisti. Ma a parte questo, e a parte il fatto che comunque Aristofane fu un grande artista e quindi inconsapevolmente un grande innovatore egli stesso, le mie Nuvole sono invece da intendersi come quei personaggi ingombranti e incombenti nella nostra vita sociale, politica ed economica; sono tutti coloro che hanno terrore del nuovo perché il nuovo potrebbe sovvertire le loro posizioni di potere. Nella seconda parte dell’album, si muove il popolo, che quelle Nuvole subisce senza dare peraltro nessun evidente segno di protesta.

 

D. Nella busta interna del disco c’è una frase del corsaro Peter Bellamy (“… io sono un principe libero e ho altrettanta autorità di fare guerra al mondo intero quanto colui che ha cento navi in mare”), mi piacerebbe sapere qualcosa di più di questo personaggio. R. Non se ne sa un gran che, a parte alcuni dati: 1) non ebbe mai nessuna “lettera di corsa” da parte di nessun sovrano dell’epoca: fu quindi un pirata e non un corsaro. 2) Non uccise mai nessuna delle sue vittime limitandosi a portar via loro le navi, e talvolta neppure quelle, ma sottoponendo i proprietari e le loro ciurme a lunghe ed accorate prediche moralistiche del tipo “Voi non siete che dei pavidi conigli, lavorate per degli immondi sfruttatori davanti a cui strisciate facendovi imbottire il sedere di pedate” ecc. ecc. 3) Morì annegato nella seconda metà del ‘700 dopo aver costituito una sorta di Repubblica Libertaria in un isolotto del Medio Atlantico. 4) Rimbaud chiamò Bellamy il proprio panfilo con il quale, pare, si diede anche al commercio di schiavi, cosa che Bellamy si era guardato bene dal fare.

D. Che difficoltà hai incontrato nell’usare (e nel cantare) il napoletano e il sardo? R. Il napoletano mi ronza nelle orecchie e nel cuore fin dai tempi del neorealismo cinematografico dell’immediato dopoguerra, dal teatro dei De Filippo, dalle poesie di Di Giacomo e dalle canzoni dei Murolo; se è vero che una delle doti dell’interprete è la capacità emulativa, e nel caso della canzone, l’orecchio, non ho proprio avuto nessun problema. Nel caso del gallurese, poi, il contatto con l’idioma è stato assolutamente diretto, senza neppure il filtro dello schermo cinematografico o televisivo o del supporto fonomeccanico. C’è comunque da dire che non sono nato e cresciuto né a Napoli né in Gallura, quindi un certo affaticamento fonetico espressivo lo si percepisce in entrambi i casi.

D. Molti saranno sorpresi e incuriositi dalla parte vocale di Ottocento. C’è una voce differente da quella cui il pubblico è abituato. R. E’ un modo di cantare falsamente colto, un fare il verso al canto lirico, suggeritomi dalla valenza enfatica di un personaggio che più che un uomo è un aspirapolvere: aspira e succhia sentimenti, affetti, organi vitali ed oggetti di fronte ai quali dimostra un univoco atteggiamento mentale: la possibilità di venderli e di comprarli. La voce semi-impostata mi è sembrata idonea a caratterizzare l’immaginario falso-romantico di un mostro incolto e arricchito.

D. E’ vero che sei abbastanza severo ed esigente con le persone con cui lavori? R. Anche nell’ebanisteria esistono artigiani di grande valore, di valore medio e semplici falegnami. Quello che li distingue è l’attenzione e la cura che mettono nel proprio lavoro, dalla scelta dei materiali fino alla meticolosità con cui vengono assemblati. Io sono un meticoloso, e tale meticolosità pretendo dalla mia bottega. D. C’è qualche episodio avvenuto durante la registrazione del disco che ricordi volentieri? R. Per leggere una parte del testo del primo brano dell’album, Le nuvole, chiamai un’anziana signora di origine nuorese da vent’anni residente a Milano. Appena sistemata davanti al microfono e dopo alcune prove di voce, al momento della prima registrazione, si mise a parlare traducendo simultaneamente il testo italiano in sardo; addusse come giustificazione il fatto che quel testo le ricordava l’infanzia, quando sua nonna la prendeva in braccio e le raccontava “sas historias”: fu un momento molto emozionante per tutti anche perché il sardo suonava stupendamente.

Fabrizio, Dori e Vasco. Sanremo 1983

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

D. Come funziona, dopo tanto tempo, la collaborazione con Mauro Pagani? R. Più che una collaborazione ha rischiato di diventare una forma di simbiosi con tutti i rischi che comporta da un punto di vista lavorativo un rapporto di questo tipo. Così siamo andati vagando in barca in mezzo all’Egeo per quattro mesi senza scrivere né una nota né un verso: semplicemente raccontandoci i fatti nostri. Non so dirti se collaboreremo ancora ma posso dirti che sicuramente rimarremo amici.

D. Nel testo della Domenica delle salme citi il tuo “illustre cugino De Andrade”. ci puoi dire qualcosa di Oswald De Andrade. R. Tra i molti poeti sudamericani che conosco, Oswald De Andrade è uno dei miei preferiti, probabilmente per quel suo atteggiamento comportamentale oltre che poetico totalmente libertario, per quel suo anticonformismo formale che lo fa essere qualcosa di più e di meno e comunque di diverso da un poeta in senso classico. E poi è dotato di un umorismo caustico difficilmente riscontrabile in altri poeti dei primi del Novecento. D. A proposito di poesia e letteratura, che libri stai leggendo in questo periodo? R. Sto aspettando che Jenning, dopo L’Azteco, Il viaggiatore e Nomadi, esca con il suo quarto romanzo. Nel frattempo possono bastare i quotidiani e proprio ultimamente, una rilettura del reportage di Pigafetta dal suo viaggio intorno al mondo con Magellano. E’ curioso come Pigafetta mescoli un encomiabile sforzo da rigoroso reporter a fantasticherie apocalittiche tipiche del suo tempo: così ogni tanto sulla spiaggia di una baia minuziosamente descritta compaiono strani uomini con la testa di cane. Ma l’aspetto più curioso e più tenero è dato dalla malcelata invidia che ogni tanto affiora nei confronti di quei popoli così liberi di fronte agli Europei che con i loro angoscianti pregiudizi già ai primi del Cinquecento avevano trovato modo di rovinarsi la vita.

(1) C’è stata spesso confusione sulla data di uscita del primo 45 giri di Fabrizio, che la discografia di Mariano Brustio nel libro curato da Riccardo Bertoncelli indica come Nuvole barocche/E fu la notte, pubblicato dalla Karim nel 1960 (o nel 1961).

 

 

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