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Dall'archivio:

1978, il caffè di Andreotti – di Emanuele Torreggiani

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Potrebbe contenere informazioni obsolete o visioni da contestualizzare rispetto alla data di pubblicazione.

 

Lo scatto metallico della moneta da cento lire in caduta ed il fruscio, a smazzata di carte, del selettore: cuore pulsante del juke box. Anno domini 1978. Vecchia ormai d’un decennio, purtuttavia un evergreen, quel sempre verde attonito anche nella brina di gennaio, nel brusio di silenzio del caffè, l’accordo di Bach, tradotto in tastiera elettronica, compone intimità interiore e un correlato dolore verso l’imminente fuga mundi. “Han spento già la luce, son rimasto solo io, e mi sento il mal di mare, il bicchiere però è il mio…”, così nella geniale traduzione, più che libera d’inventiva firmata Mogol, i Dick Dick, coverizzano i Procol Harum i quali, profeti del rock orchestrale, avevano ricavato, un’anastilosi, da Johann Sebastian Bach, kapel maister. Così Bach in quel caffè disposto in tre sale, una per il biliardo già alle nove e trenta dal colpo secco della stecca sull’avorio; una per il Tè e non solo nel deserto; e il salone d’ingresso col banco in acciaio, lo sbuffo della caffettiera nell’aroma dulcamara dei cornetti e la teoria di tavolini allineati. Lì siede un ragazzo. Lo vedo. Avrà vent’anni. Indossa un principe di Galles, camicia e cravatta oxford, francesine frangiate, ha il capello lungo biondo castano. Sul tavolo un libro aperto, una stilografica Omas ed un quaderno a righe. Il tratto corsivo regolare in blu di Prussia. Fuma Gauloises che accende con uno Zippo. Sta leggendo. Leggerà, dietro le lenti dei Ray Ban, per anni lì dentro. Ci scriverà la sua tesi di laurea pescando dal tascapane militare che indossa a bandoliera la radunata dei testi. Quel ragazzo lo conosco. Ma lo voglio vedere solo di spalle. Una testa di cazzo. Quel giorno ha la mano destra fasciata che odora di Vegetallumina. Nei giorni appresso un celerino, un ragazzo come lui, gli ha incrinato, con il calcio del moschetto il metacarpo, poi è stato portato, con altri ragazzi, in caserma per l’identificazione. Un dolore da piangere, ma non ha pianto. Comunque le dita affusolate sono buone per il pennino della Omas in bachelite azzurra. Dunque, sta leggendo, fuma con la sinistra, “Fenomelogia dello spirito” di Guglielmo Federico Hegel. L’ultimo titano. Un’ombra gli si dispone sulle pagine fitte fitte. Il ragazzo alza il capo e scatta in piedi. Arrossisce. Oggi, di quel rossore che gli infiamma le guance, vedrebbe il segno dell’innocente timidezza. Il tempo cambia. La mano dell’uomo adulto gli sorride posandosi sulle sue spalle, non si disturbi, ero curioso di sapere cosa stesse leggendo. Il ragazzo posa la stilografica a segnalibro tra le pagine e chiude il testo. Caspita, una lettura impegnativa, e lei studia in questo luogo non proprio silenzioso?. Sì, Signor Presidente.

 

L’uomo con la mano posata sulla spalla del ragazzo è Giulio Andreotti, alle sue spalle il ragazzo, che ero io, riconosce il Ministro Arnaldo Forlani, poi un altro uomo dai capelli a taglio militare, probabilmente un Questore aggiunto alla sicurezza. Indicandogli la mano fasciata, di quella mano oggi egli sente al tatto il soprosso, l’Uomo di Stato gli chiede. E lui gli dice della manifestazione, del FUAN, dei celerini, non dice che sono ragazzi anche i celerini, oggi lo saprebbe, ma oggi, oggi lui è fortissimo, forte come la morte, e non avrebbe più vergogna di alcuna lacrima. Anzi. Arnaldo Forlani gli scarruffa i capelli. Il questore sorride sardonico ed il Divo Giulio gli dice che amministrare l’Italia è difficilissimo. Lei ha mai osservato l’arte del caffè? Il ragazzo scuote il capo. Vede, quando si reca in Svizzera, il caffè è sempre il medesimo brodo grigiastro. Anche il Germania, meglio, nelle Germanie, addirittura quelli dell’Est bevono ancora la cicoria. Ma qui da noi il caffè è ristretto, normale, lungo, macchiato caldo, macchiato freddo, schiumato, in tazzina calda, in tazzina fredda, in bicchiere di vetro e via… qui da noi il caffè è un’arte. E se lei osserva il caffè vede ancora ancora l’Italia delle Cento Città. Perché questo noi siamo. Abitanti di una singola città dentro un perimetro nazionale. Poi se ne andò, si recavano nell’adiacente sede della DC di via Nirone, Milano. Giulio Andreotti, anno Domini 1978. Un incontro. Non sta a me giudicare la sua vita politica. Rilevo, da questo apologo sul caffè, quanto avesse un occhio ficcato dentro la realtà. In quella soglia che noi si chiama il visibile.

Emanuele Torreggiani

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