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Dall'archivio:

Radici in crescita, sequenza giornaliera degli accadimenti, di Ivan D’Agostini- 31 marzo e 1 aprile

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Trentunomarzo

Mi pare sia giunto il momento di fare un censimento, di fare la conta, sennò rischio di perdermi tra i meandri della memoria, di perdere le sequenze e gli inevitabili fallimenti di qualche apparizione. Allora iniziamo con ordine.

Ieri, finalmente ho visto che il “vassoio” si è manifestato; il primo “vassoio”, l’unico al quale ho affidato per primo le mie attenzioni; al pari di questo però, altri minuti e occasionali episodi, mi hanno suggerito di ampliare questo esercizio, di dilatare nello spazio e nel tempo, le occasioni; cosicché, se qualcosa dovesse naufragare, un rimpiazzo, una sostituzione, avrebbe avuto il compito di conservare questa serie di episodi, e dunque la possibilità di aiutare e di rivolgere altrove il pensiero, non per dimenticare la prima circostanza, bensì, come per una sorta di spirito democratico, una multi visione della vita, ovvero la necessità di vedere la pluralità degli elementi; che siano in corso o meno.

E allora è stato così che ho sentito l’occorrenza di aggiungere, di collocare altre condizioni; ma fuori, stavolta, all’aria aperta: certo muniti di quella consolidata protezione del davanzale, del riverbero emanato dalla tenue calura che s’irradia dal cemento alla sera, quando il sole scompare dietro le montagne che a volte pure a noi capita di vedere, qui nella piatta della pianura; quel tepore prolungato, così che il vaso lo assorba e, la notte, a volte ancora fredda, risulti meno fastidiosa, e che in fondo sia quasi un paragone con quello che accade nell’interno nella situazione protetta.

E allora è stato così che ne ho collocato uno sul davanzale piccolo del cucinotto e lì addirittura ho fatto uno strato con alcune ghiande piccine, ammassate le une alle altre. Cosa mi aspetto che accada con tutto quel bailamme? Forse che concentrare tanti e tanti di quegli accadimenti, una densa e ricca forma di esistenza che si ammassa una dentro l’altra, equivale a dichiarare che siamo tutti qui vicino e forse troppo vicino, ma che in quelle condizioni ci possa comunque essere una soluzione di partecipare, ognuno per un obiettivo finale? Come se la propria esistenza in una collettività di analogie, con una riflessione rispetto a quello che vedo lì, davvero fosse simile a quella che si manifesta nel “vassoio”?

E pur che qualche settimana dopo ho pensato che questo poteva non bastare e allora? E allora, altri contenitori si sono prestati all’obiettivo lì, sul davanzale medio, della finestra di media grandezza e infine, accanto all’edera, i semi della gazania e dell’anagallis, riccioli d’oro e lenticchie di blu, che coloreranno il grigiore della pietra artificiale.

 

Unoaprile

 

L’aria, oggi, sta cambiando, di nuovo, dopo tanto caldo, precoce e sfacciato, come se questa ricchezza, abbandono di starsene finalmente sbracciati con i peli delle braccia che filtrano il sole, fosse non solo prematura ma persino che non c’è la meritassimo, non fossimo degni d’averci il caldo dopo il gelo, che è sempre terrificante, dell’inverno appena trascorso, quest’inverno che ha bruciato i falsi gelsomini, quasi dappertutto, quest’inverno che ha irrigidito la terra che nella morsa nelle pinze dei sassi che hanno stretto le radici, il colletto del tronco, quel gelo che ha congelato persino l’aria, in alcuni momenti.

Poi, quasi all’improvviso, nel secco dell’inverno è arrivato il caldo che ha spinto i germogli a uscire e quelli, i più, se ne stavano lì come i miei là, sotto al calduccio della terra, che anche ora stentano ad emergere, stentano a farsi vedere. E oggi l’aria è fredda, quasi fredda, forse si prepara per domani, quando il sole se ne starà lì, dietro le nuvole a guardare la terra bianca, attore sparuto che farà capolino tra un batuffolo e l’altro del cielo.

Una domenica di tanto, una domenica di niente, intervalli che celano l’ansia della riuscita, intervalli crudeli che allontanano la calma, esasperano l’attrito del pensiero.

Una domenica di stesura, una domenica di guerra, la mia con le mie parole, con il buco che in testa si forma, in questi due giorni mentre la vista a tratti si inguaia, si fonde e fonde pure le immagini nel cielo della mia, forse, inquietudine; che somatizza i flussi elettrici e  che scontorna le figure. La memoria s’ingarbuglia, i nomi si allontanano dalla pagina dei ricordi. Auree visive le hanno chiamate, una grandissima rottura di coglioni le ho tradotte io. Impotente, ma non rassegnato vado avanti, laddove l’occhio non arriva, arriva la mia mente, arrivo io con la mia arroganza di oscurare questo fastidio, un dispiacere per la fluidità del mio interno motore.

Nonostante ciò mi accorgo di quanto sia importante lo sforzo, la volontà di non abbandonarsi a inutili auto pietismi. Certo è a volte faticoso, talvolta pure difficile e, in alcune occasioni ho persino dovuto rallentare se non fermarmi anche, per evitare guai a me ma soprattutto ad altri, ma se i ciechi imparano a vedere oltre la luce, se i sordi imparano a sentire oltre il suono, se la tattilità diventa strumento operativo all’esplorazione e se perbacco le onde radio hanno tradotto in immagini suoni, colori, forme, lo spazio siderale più profondo, non posso io, miserevolmente s’intende, tradurre la mia domesticità che mi manca solo per qualche minuto, frazioni di spazio che la vita intera ha raccolto sino adesso?

Certo, certo si può fare, mi grido a mo’ del Frankenstein scienziato sulla torre della scienza, la mia scienza, che corroboro ogni giorno con avventure spaziali, nel senso di vivere nello spazio che mi circonda, ma perché non tradurre in fantastica poesia le quotidianità, pensando che tutto è importanza, persino la briciola che ora sta lì accanto alla tastiera del mio computer.

Bene ritorno al “vassoio” che se ne sta sempre lì a guardarmi, forse, ma se ne sta lì con gli altri, con gli altri compagni di vita che ho assemblato e che ho unito in questo foglio della ricerca della costruzione della fantasia tout-court. Dell’ironia dell’esistenza, del prendersi in giro continuamente nella derisione delle nostre piccole sfortune: nulla a confronto di talune che sono massi intrasportabili, insormontabili, inamovibili e invisibili. Quel proverbio, certamente semplice della mia mamma che invita ad andare al mercato con la sporta dei nostri guai per confrontare se sia opportuno o meno lo scambio. Torneremmo, dice sempre la saggia madre, ognuno di noi con il nostro cesto, ben contenti di avere solo quelli, di problemi che nulla sono in confronto a quelli di…  “Ah ma non pensavo” “Però eh che furbetto” “ma no, ma non mi dire”

Come ieri sera che la Giuseppa (si uno strano nomino ma è così) che mi ha stupito quando ho capito che fosse la cugina di quel mio amico, quel mio amico dell’infanzia, che ha avuto una serie di sfortune, di guai, vedovanza, fallimento, perdite varie, figli sconosciuti rivelatisi improvvisamente. e ora pure immerso nella cruenta battaglia legale per quattro spiccioli di famiglia. Che meschinità porsi (o ergersi) di fronte solamente alla triste materialità del danaro!

Meno male che ritorno sui miei piccoli sassi, sulle mie tenere foglioline, su quei germogli che stanno per agguantare l’aria, per dettarne forme nuove per respirare i recenti profumi, quelle fragranze che riempiranno l’aria frizzantina del mattino e già assaporo il verde cristallino del fogliame irruento, quel fogliame che spingerà dal tronco altre energie, altri colori, altri sapori …

 

Lì sono lì e sono contento di esserci vicino.

Questo articolo fa parte dell'archivio di Ticino Notizie e potrebbe risultare obsoleto.

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